Musica - i consigli della settimana


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Il Piave 'rockeggiò'

Il Veneto in Rock: Massimo Priviero e Giorgio Barbarotta, musica “poetika” e ribelle

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)  

Massimo Priviero – Ali di libertà (Mpc Records)

Massimo Priviero fa centro, ma gli spettatori sono pochi, come nel tiro con l’arco. Un po’ di ribalta solo alle Olimpiadi, e poi l’oblio. Nell’epoca dei “contest” e dei Fattori X, è ancor più difficile che in passato trovare un ariete che sfondi le orecchie dei più e li affranchi dalla televisione che, come diceva Jannacci, “t’endormenta come un cuiun”. Sono passati sei anni da “Dolce resistenza” (per l’appunto), l’ultimo album di inediti del rocker di Jesolo. In mezzo, molti concerti e un bel lavoro con il violinista Michele Gazich, “Folkrock”, una raccolta di cover dei musicisti che hanno lasciato una cicatrice nell’anima del nostro, da Bruce Springsteen a Jackson Browne, da Dylan a Neil Young. Ma non è un peccato, è solo evoluzione darwiniana. La memoria raccoglie, rielabora e migliora. Succede da che mondo è mondo, a dispetto dei creazionisti. Sugli artisti la memoria lavora come un veicolatore di pensieri, idee, influenze, tutto viene salvato nell’hard-disk del cervello, ed i file si riaprono in automatico quando le sinapsi lavorano a tappe forzate. All’inizio della carriera Priviero venne etichettato come un mezzosangue, mezzo Dylan, per la sua anima folk, e mezzo Springsteen, per il suo furore da rocker stradaiolo.

Figlio del Veneto bianco e ignavo, terra di sofferenza operaia e di trincee, del Piave che mormorò e della fame atavica, (non) luogo di migranti e di miracolo economico, Massimo Priviero ha assorbito la passione civile necessaria per raccontare le storie degli ultimi, degli sconfitti, degli emarginati, dei diseredati. In una parola (inglese): dei dropouts. La sua è una canzone autenticamente politica, figlia dei Gang e di Massimo Bubola, della rabbia e della poesia, che ha il timing della ballata, gonfia di lacrime e sorrisi, di rose e di pioggia. Il ringhio ruvido di Priviero, un Ligabue alla cartavetrata (e che nessuno dei due si ritenga sminuito dall’accostamento), fa tornare la voglia di resistere (non a caso, due titoli precedenti, “Nessuna resa mai”, “Dolce resistenza”) e di combattere per difendere i propri sogni e i propri diritti. “Le canzoni saranno come dei pezzi di un sogno tradotto con la musica. Cercato, perduto, ritrovato e difeso nello scorrere del tempo. Individuale e collettivo. Fatto di forza, perché e di quella cosa che oggi abbiamo più bisogno.

Un sogno libero e forte. Costruito intorno ad una voce. La vostra e la mia”. Parole dell’autore, sufficienti a mettere bene a fuoco l’essenza dell’album. Nell’avanti veloce il nastro si inceppa su “Madre proteggi”, una accorata preghiera alla Vergine Maria, a cui Priviero affida la protezione di vinti, degli offesi che non hanno peccati, dei folli, dei persi, dei rifiutati, degli innocenti “ogni giorno traditi” e dei guerrieri che “non vogliono sparare”, un insolito accostamento tra sacro e profano, non nuovo alle anime più pure del rock (Dylan e Patti Smith docent). Ma anche madre dei giusti, dei liberati, dei Cristi e degli innamorati. “Madre scalda questo sole/ asciuga questo sale/ madre, ecco tuo figlio, madre mia”). E’ questo il perno intorno al quale gira “Ali di libertà”, permeato di una religiosità genuina ed evocativa, chissà quanto influenzata dal nuovo corso di Papa Francesco. L’album procede con un crescendo rossiniano, i versi cinematici evocano rabbia e lotte, resistenza e barricate, fede e passione. Valga per tutte l’anthem di “Alzati”, che mescola la “Refugee” (“Rifugiato”) di Tom Petty a “Bella ciao”, e che inventa uno slogan conciso e facilmente memorizzabile: “Alzati in piedi ora o mai più”. (“Io sono là/ la mia guerra non è mai finita/ Io sono là e la mia storia non si è mai venduta/. Là dove vive ancora la mia gente/ Là dove il mondo è nella sua follia/Là dove il popolo respira ancora/ Là dove dicono c’è democrazia”).

La storia della sua terra, le storie della sua terra (Rigoni Stern, Buzzati, Marco Paolini ) sono poesia che si trasforma in preghiera e la preghiera si eleva al cielo. Si coagulano la voglia di resistere e la religione, valori condivisi da molti ma esclusi dalla “società dello scarto” (Papa Francesco). “Ali di libertà” è un album forte, orgoglioso, ruvido, e bellissimo. Anni fa un critico musicale statunitense disse che Priviero era l’unico rocker italiano in grado di competere con quelli americani.

Forse non è l’unico, ma che non abbia nulla da invidiare a colleghi d’ Oltreoceano più titolati è un dato acquisito. Ascoltate “La casa di mio padre” (“Mia padre gli disse sì sopra una panchina/ e poi gli disse: giura che mi porti via/un giorno avremo una casa tra gli ulivi e il mare/ sarà la casa del tempo migliore”). Sentite “Libera terra pt. 1”, che occhieggia alla “Cadillac Ranch” di Springsteen, o “Il mare”, ballatona alla Bob Seger , che racconta la fine di un amore adolescenziale . (“per un sogno che muore/ un sogno nascerà) , e avrete chiaro il quadro di riferimento, che è un pugno nello stomaco , tipo la prima volta che ci si trova davanti a Guernica. Per quello che conta l’ opinione di chi scrive, “Ali di libertà” è il più bell’album italiano del 2013. E anche degli anni precedenti.

Giorgio Barbarotta – Snodo (GB produzioni)

Da Iesolo a Treviso il passo è breve, ma fitto di incroci, intersezioni, semafori verdi, valori e tradizioni comuni. Terra ricca di storie e di leggende, di brume e zanzare, teatro di guerra, della quale ancora porta ancora le stimmate, e le cui trincee sono ancora aperte. Nonostante l’esistenza dei Gentilini di zona (che non sono biscotti), c’è ancora uno strato sociale solidale e politicamente scorretto, che produce talenti, per lo più inascoltati, come ogni profeta che si rispetti. Giorgio Barbarotta è iscritto di diritto alla categoria, sezione emergenti potenziali. In fieri, direbbero i romani, quelli antichi. “Snodo”, datato 2011 e recuperato (da me) in ritardo, è il suo quarto, ed ultimo, album. Barbarotta non è più un ragazzo, ha toccato i quaranta, vive praticamente on the road, 500 concerti all’attivo e perfino un tour in Cina, dove s’è costruito bel parterre di estimatori. E il bel po’, nel paese del Dragone, è sicuramente di più degli abitanti di Treviso. In “Snodo” c’è un trascorso musicale fatto di ballads all’americana, di folk e rock elettrico, di cantautorato d’autore, insomma di tutti quei componenti che, assemblati nel modo giusto, fanno di un prodotto normale un buon prodotto. Non c’è nulla di nuovo sotto al sole. C’è solo una tradizione sonora che non muore mai perché è stata già destinata all’immortalità e che viene riproposta agganciandola al presente.

D’altronde, chi può sostenere che Beethoven sia sorpassato solo perché bicentenario? Ergo, “Snodo” si ispira ai sentimenti eterni (l’amore) ma anche all’attualità, come in “Buone nuove”, ispirata al Nobel per la pace assegnato ad Obama, mentre “Noi” esplora il rapporto uomo-natura, “L’alchimista” (“giù nell’ampolla suoni e parole/cuoce e distilla ribolle la pozione/che esplode chimica/che ispira mistica”) ironizza sul mestiere del musicista, che mescola elementi diversi e ne effettua la sintesi. “Podere 41” racconta della disperazione degli uomini piegati in due a raccogliere pomodori nel sud (“guardati intorno succede a casa tua/hai mai sentito allora del Podere 41/là dove l’oro rosso luccica”), “là dove” i molti italiani che sparerebbero sui migranti non manderebbero mai a lavorare i propri figli, alla faccia di ”ama il prossimo tuo”.

Versi elegiaci, simbolismi, metafore, questo è il linguaggio di Barbarotta, poesia più “poetika” di quella di Priviero, che scrive per i ragazzi di strada. Due linguaggi diversi, immediato e facilmente memorizzabile quello di Priviero, più intellettuale Barbarotta. Arrivano tutti e due al cuore, con violenza diversa. A volte con infinita dolcezza: “Sinfonia di maggio”, che ricorda vicino il buon Cristiano De Andrè, è una bella ballata folkeggiante che va subito a memoria (“Sveglia amore sveglia/avanti vestiti/che fuori c’è una meraviglia/roba da non crederci/fatti coraggio/è già di nuovo maggio”). Per farla breve, siamo nel mezzo della tradizione italica del racconto rock, con i rimandi del caso alle tradizioni della propria terra. Album delicato e ben suonato, disegnato con garbo e sentimento, che mescola sociale e personale, vizi privati e pubbliche virtù, che si nutre di tradizione e guarda al futuro. Poetico, ma non scollegato dalla realtà.