di Sandro Calice IL VILLAGGIO DI CARTONE
di Ermanno Olmi. Italia 2001, drammatico (01 Distribution)
Michael Londsdale, Rutger Hauer, Massimo De Francovich, Alessandro Haber.
“Ho fatto il prete per fare del bene, ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede”.
Nella chiesa deserta il vecchio prete prega disperato, inginocchiato sui gradini dell’altare. Non c’è più nulla da fare, non c’è più tempo, gli dice il sacrestano, i tempi sono cambiati e quella chiesa dev’essere abbandonata. Il portone si apre ed entrano in silenzio gli operai e le loro macchine, smontano gli arredi, tirano giù il crocifisso, finchè resta solo il vecchio prete. Quella notte però piove tempesta, e la chiesa in silenzio, al buio, torna alla sua antica missione, casa dei disperati, degli ultimi del mondo. Sono immigrati clandestini in fuga, braccati da uomini che fanno “solo il loro dovere”, uomini, donne, bambini, che tra quelle mura, alla luce e al calore solo delle candele, coperti di stracci e di cartoni, ritrovano la speranza, anche se sanno che durerà solo lo spazio di un respiro. Per il vecchio prete non è ancora tempo di congedarsi, le sue ultime forze avranno uno scopo.
Ermanno Olmi (“L’albero degli zoccoli”, “Lunga vita alla signora”, “La leggenda del santo bevitore”) dice subito che questo film è un apologo, con ciò intendendo che immagini e parole sono fortemente, anzi quasi completamente simboliche. Per lo spettatore questo significa una scenografia essenziale, attori che recitano un po’ sopra le righe o senza realismo, una sceneggiatura spesso didascalica e pedagogica. Il tema però si presta, e affrontarlo da questa prospettiva costringe il pensiero, più che l’emozione, a guardare fino in fondo. Olmi (ascoltarlo è sempre una lezione di vita) ci dice che la conquista della nostra libertà passa attraverso la liberazione dalle chiese, da tutte le “chiese”, non solo religiose, ma culturali, politiche, economiche. Il prezzo da pagare, spesso, è la solitudine. Sostiene che la vera solidarietà è dire “vieni a casa mia, io non ti accetto perché hai bisogno, ma perché ti sono amico”. Confessa che racconta i meno agiati “perché io gli agiati non li conosco. E perché c’è qualcosa di offensivo nella troppa agiatezza: essere troppo ricchi è un crimine”. E sul suo rapporto con la religione e la fede, “io credo agli angeli – sorride – agli angeli che sono in ognuno di noi. Non so se sono ‘ossessionato’ dalla fede, ma è come per l’amore: resta ossessione fino a quando ‘amore’ non si trasforma in ‘amare’, metterlo in pratica libera, accettare l’ossessione dà lampi di liberazione”.