di Maurizio IorioMark Lanegan
"Blues funeral" (4ad)
Mark Lanegan, ex-leader dei degli Screaming Trees (siamo nell’area grunge di Seattle), prima di cantare fuma un pacchetto di Gauloises, scioglie del catrame nel bourbon e poi manda giù tutto. “Con quella voce potrebbe asfaltare le strade”, disse di lui uno in vena di complimenti. Di fatto, tanto per rendere l’idea, siamo a metà strada tra Nick Cave e Tom Waits. Se ci aggiungiamo anche Leonard Cohen, ecco completata la mappa musicale di riferimento. Insomma, non regna certo l’allegria nell’armamentario poetico del giovanotto, i cui colori preferiti sono il grigio e il nero, meglio la notte del giorno, le ombre delle luci, l’alcol della Coca Cola (tipo: “se le lacrime fossero liquore/ mi sarei ubriacato fino alla morte”, canta in “St. Louise Elegy”. Il nuovo album, “Blues Funeral”, dal titolo decisamente sintomatico, racconta dell’esistenza dolente di uno che nella sua vita ha sempre camminato sul lato selvaggio della strada, indagando sui lati oscuri dell’esistenza, sui mostri nascosti nel profondo dell’anima. Ma attenzione: questa non è musica per chi è in cerca di una mano che l’aiuti a buttarsi di sotto. Dentro al “funerale del blues” c’è una sapienza musicale d’altri tempi, una capacità di songwriting fuori dal comune, una attenzione certosina ai suoni ed agli arrangiamenti. Gran cantautorato, seppur confinato in un universo “maudit”. Inaspettate, invece, le aperture colorate al synth-pop degli anni ’80, uno di quei mondi paralleli dove nessuno avrebbe mai sospettato che Lanegan andasse a pescare ispirazione. Un Leonard Cohen in fieri? Le premesse ci sono tutte. Black Keys
"El Camino" (Nonesuch records)
Proiettati sul grande schermo della popolarità dopo aver sbancato i Grammy del 2010 (ben tre), questi due ragazzi dell’Ohio (Akron , grigia città dove regna la Goodyear e tutto puzza di gomma) hanno lasciato di botto la schiera degli illustri Carneadi per scalare le classifiche e accumulare dischi d’oro. Patrick Carney, batterista, e Dan Auerback, chitarra e voce, facce da secchioni sfigati, hanno rispolverato le vecchie enciclopedie del rock e si sono messi a studiare. Rolling Stones, Ramones, Stooges, Television, sono le basi su cui i Black Keys hanno costruito, senza allungare troppo il passo, una grande carriera. Ormai trentenni, e con otto album alle spalle, rivendicano giustamente un posto nell’Olimpo della musica contemporanea. “El camino” è un album di sano e solido rock’n roll, undici pezzi da tre minuti-tre, garage rock e psichedelica, anni ’50 e Mick Jagger, riff ruvidi e polvere di gomma. Per essere solo in due, fanno un bel po’ di rumore.