di Rodolfo Fellini
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Si preannuncia più insidiosa di quanto appaia agli occhi occidentali la tornata elettorale che punta a legittimare un inizio di nuovo corso nello Yemen, uno dei Paesi più poveri e a più alta conflittualità del mondo arabo. Sulla scia delle rivolte della Primavera araba, ma con meno speranze di Egitto e Tunisia, si torna alle urne 6 anni dopo il contestato voto che riconfermò l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, rimasto al potere ininterrottamente dal 1978. Stavolta, Saleh non sarà candidato, in virtù dell’accordo che, in cambio dell’immunità per sé e per la sua famiglia, lo ha convinto ad accettare di cedere i poteri al suo vice, il 67enne militare in pensione Abd Rabbo Mansour Hadi.
Hadi è ora il candidato unico di un’elezione che in molti definiscono “una farsa”. Secondo numerosi analisti del mondo arabo, l’affluenza ai seggi si fermerà molto al di sotto del 65% delle presidenziali del 2006 o del 76% registrato alle politiche del 2003. La ragione principale del previsto astensionismo va ricercata nell’appello al boicottaggio, lanciato dai ribelli del Movimento Sudista e dagli sciiti della setta zaidita, maggioranza etnica nelle zone montane del Nord. Molte città e aree rurali dello Yemen sfuggono completamente al controllo del governo centrale, e in numerose zone sono attive cellule di Al Qaeda, che qui operano con il nome “Partigiani della Sharia”. I ribelli contestano le presidenziali in ragione dell’intesa tra tutti i partiti per appoggiare Hadi. Quest’ultimo vanta nel suo curriculum una breve esperienza da ministro della Difesa ma, soprattutto, 17 anni al fianco di Saleh come suo vice. Risultano pertanto comprensibili le critiche di chi non vede nella scelta del candidato unico una presa di distanza rispetto al recente passato. Hadi è riuscito a conquistarsi i favori dell’intero arco parlamentare per la sua notorietà, in un panorama che non offre leader forti sul piano nazionale, e anche perché è un uomo del Sud. Un dato, questo, di particolare rilievo per un Paese riunificatosi solo nel 1990, dopo il crollo del comunismo, ma dove la spinta separatista dei ribelli meridionali costituisce una minaccia permanente. Hadi rappresenta infine un buon compromesso per i vicini della Penisola araba, Arabia Saudita in testa, e per gli Stati Uniti, che hanno tutto l’interesse a favorire la stabilità in un Paese a rischio disgregazione, e in cui l’anelito democratico della popolazione comincia a farsi pressante.
Risulta difficile oggi valutare fino a che punto l’uscita di scena di Saleh sia definitiva. Nel discorso televisivo che ha preceduto la sua partenza per ragioni mediche per gli Stati Uniti, l’ex presidente ha promesso che sarebbe tornato in patria da leader del suo partito, ma i contestatori delle elezioni temono che continui a manovrare nell’ombra. Al di là del risultato che otterrà, Hadi avrà quella legittimazione, ancorché di facciata, che gli consentirà di elaborare le modifiche costituzionali che agevolino la transizione democratica. Il processo dovrebbe sfociare, tra due anni, nelle elezioni politiche e, ancora una volta, nelle presidenziali. In ogni caso, la strada si presenta in salita, anche in virtù della composizione etnica del Paese, diviso sotto ogni punto di vista. Tribù, clan, gruppi religiosi e forze politiche vivono oggi in un fragile equilibrio, una bomba pronta a detonare a ogni momento, a meno che nella nuova stagione politica Hadi e i suoi alleati non riescano ad avviare un dialogo vero, embrione di un lungo e laborioso processo democratico.