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Springsteen, una palla demolitrice contro gli speculatori

Wrecking Ball: 11 canzoni, 11 atti d’accusa, 11 invettive

di Maurizio Iorio

Ho scritto, anni fa (chiedo scusa per l’autocitazione), che il Boss era “l’ultimo eroe romantico ed innocente di una generazione di perdenti”. Lo ribadisco, oggi più di ieri. Aggiungerei consapevole e rabbioso. Forse, in questo ultimo capitolo, “Wrecking ball”, anche messianico: in “Rocky Ground” Springsteen cita l’episodio di Gesù che caccia i mercanti dal tempio, nella fattispecie i banchieri di “Jack of all trades”, che “ingrassano /mentre i lavoratori dimagriscono/ è successo tempo fa/ e succederà ancora”. Occupy Wall Street sta lì, dietro l’angolo, accanto al toro della borsa, ad aspettare una colonna sonora, che solo il cantore della working class americana poteva scrivere. E’ un messia furioso, Springsteen, non usa circonlocuzioni per attaccare i “baroni ladri” che devono “andare dritti all’inferno”. E, in “This depression”, fotografa l’attuale condizione economico-sociale americana: “Baby, mi sento perso/non sono mai stato così giù/ e così perso/ la mia fede aveva già vacillato, ma non ero mai stato senza speranze/in questa depressione ho bisogno del tuo cuore”.

Dall’11 settembre alla crisi economica, i dieci anni che sconvolsero il mondo
Se “The rising” era l’album del dopo 11 settembre, della riscossa e dell’orgoglio patrio, “Wrecking ball” è la colonna sonora della grande crisi, del day-after della guerra finanziaria, quando le macerie non lasciano ferite nel corpo ma nell’anima, spaesata dalla polverizzazione delle certezze. Aggrapparsi al fatto che gli Stati Uniti fossero sempre il paese delle tante opportunità è stato l’appiglio al quale gli americani si sono attaccati nei tanti momenti duri della loro storia. Altro che “Land of hope and dreams”, brano già sentito dal vivo durante il tour del ‘99, reinserito in “Wrecking Ball” per omaggiare l’amico di sempre, Clarence “big man” Clemons, il compagno fedele di tante battaglie, scomparso da poco, sul cui assolo di sax è stata ricomposta la canzone in studio, e che non a caso è piazzato in coda all’album insieme a “We are alive” (noi siamo vivi”) , quasi una chiamata alle armi della nazione a resistere, a non arrendersi mai (“No surrender”), per poter ricostruire il paese perché torni ad essere una terra di sogni e speranze. Questa è la fine, definitiva, del sogno americano, di una promessa che non è stata mantenuta, di un paese che ha tradito i propri figli in nome dell’avidità e della speculazione, e al diavolo l’etica del lavoro. La soluzione è che bisogna cavarsela da soli, come sempre, e l’esempio del Supedome di New Orleans, dove furono ricoverati gli scampati all’uragano Katrina, poi lasciati soli, è significativo (“da Chicago a New Orleans/ dal muscolo all’osso/ dal capanno di caccia al Supedome/avevamo bisogno d’aiuto ma la cavalleria è rimasta a casa/non c’era nessuno che sentisse il suono della tromba/ovunque sia volata questa bandiera/noi ci prendiamo cura di ciò che è nostro”, canta Springsteen in “We take care of your own”).

“Il mio paese va alla deriva”
Sulla capacità della sua America di risollevarsi un’ennesima volta, il Boss comincia a nutrire del dubbi. “Ho visto il Paese che amo andare alla deriva – ha dichiarato in una intervista all’Espresso – “Prima piano, poi velocemente. Allontanarsi dai valori della democrazia, di qualunque giustizia economica. C’è un mucchio di lavoro ancora da fare. Ed è un lavoro che deve cominciare nelle menti e nei cuori, prima di tutto. Enormi parti di storia americana sono state dimenticate. Enormi e dolorose”. E’ questa la sintesi dello Springsteen-pensiero, il filo rosso che unisce tutta la storia musicale del rocker del New Jersey, che ha cantato molti dei temi dell’immaginario collettivo giovanile americano, le fughe nella notte, le corse in auto, gli amori maledetti, ma che da tempo (Factory, 1978) ha inserito il lavoro e la giustizia, sociale ed economica, fra le tematiche guida del suo lavoro. L’eredità di Hank Williams, Woody Guthrie, Pete Seeger, Johnny Cash, Bob Dylan, è stato un peso che il Boss si è accollato in toto, assumendosi il rischio dell’impopolarità e dell’anacronismo. Invece proprio per questa sua peculiarità Springsteen sta alla storia della musica popolare americana come John Steinbeck sta a quella della letteratura. Non a caso è stato proprio il Boss a cantare la storia di Tom Joad (“The Ghost of Tom Joad”, 1995) , il protagonista di “Furore” di Steinbeck, e a raccontare l’epopea degli Oakies, i contadini dell’Oklahoma, che a causa della grande depressione si trasferirono in massa nelle città a cercare fortuna e lavoro. “Tom disse: “Mamma, ovunque trovi/ un poliziotto che picchia un ragazzo/ ovunque trovi un neonato che piange per la fame/ ovunque ci sia nell’aria la voglia di lottare/ contro il sangue e l’odio/ cercami, mamma e sarò lì/ ovunque trovi qualcuno/ che combatte per un posto dove vivere/ o un lavoro dignitoso, un aiuto/ ovunque trovi qualcuno che lotta per essere libero/ guarda nei loro occhi, mamma, e vedrai me” (da The ghost of Tom Joad). In queste parole sta il senso di tutta l’opera springsteeniana. Senza conoscere tutto questo, non si può capire neanche “Wrecking Ball”.

L’album è un mix di tutte le sue musiche
Detto ciò, per rappresentare l’America lacerata, la sua America, Springsteen ha usato gli stilemi musicali di sempre, fondendoli in un unico magma, un pentolone ribollente di rabbia. C’è la mistura county-folk celtica delle Seeger sessions, c’è il rock stradaiolo delle origini, ci sono i fiati ed i violini, le melodie redneck e il gospel (il Victoria Gospel Choir in “Rocky Ground”), c’ un assaggio di hip hop, c’è Tom Morello (chitarrista dei Rage against the machine), ci sono una parte degli E Streeters, che invece saranno al completo nel prossimo tour. E, soprattutto, c’è grande musica. Non la migliore, ma comunque grande. “Wrecking Ball”, la palla che deve distruggere la casa (l’America) per poterla ricostruire, è un’opera complessa, difficile da digerire in una sola volta. E’ un vero pugno allo stomaco , di quelli che lasciano senza fiato.