di Maurizio IorioLaura Gibson
"La Grande" (Barsuk)
Laura Gibson è una delle nuove lady del folk, anche se la definizione (quella musicale) è assolutamente riduttiva. In genere sono i giornalisti ed i filosofi a creare categorie, forse per far comprendere meglio le loro elucubrazioni letterarie. Ma le categorie non hanno mai confini certi, e così la regola ormai è l’essere borderline, muoversi a cavallo fra i generi, favorire l’incatalogabilità. Laura Gibson rientra appieno fra quei musicisti che sono bianchi ai blocchi di partenza e neri all’arrivo, e non stiamo parlando del colore della pelle. La ragazza viene da Coquille, Oregon, uno degli stati paesaggisticamente più belli d’America. Panorami che ispirano pace, serenità, sogno, desiderio di viaggiare, nonché pezzi di cinema. Così la 32enne songwriter, ex-campionessa di salto in alto, faccia acqua e sapone e voce spigolosa, arpeggia con la sua chitarra su melodie sospese nel vuoto, crea atmosfere che sanno d’antico (“Non tutto quel che è vecchio è passato: come il folk”), e rimandano agli ipnotici canti tribali dei nativi americani (i Nasi Forati, cacciati dalla Wallowa Valley, ad ovest della città di La Grande) con suoni che sembrano uscire da uno di quei vecchi grammofoni degli anni ’20, con l’altoparlante a tromba, con i quali i nostri antenati ascoltavano Caruso, Billie Holiday o Duke Ellington. L’album prende il nome da una “città dell’Oregon. Antica, abbandonata dalla storia, ma ancora fiera, bella. Nel titolo c’è il senso della mia musica”, spiega Laura Gibson, che suona la chitarra, il basso, il vibrafono, il piano, l’organo, le percussioni, la marimba e la batteria. Una one-woman band, per dirla all’americana. Nell’album si intromettono i Decemberist, anche loro di Portland, dove la ragazza è cresciuta musicalmente, ed i Calexico. Il New York Times ha scritto che “la sua musica rimette a posto l’anima, davanti al camino”. Davvero, ma non l’anima di chiunque. Norah Jones
"…little broken hearts" (Blue note)
Se si parla di musica in grado di riparare l’anima, anche Norah Jones va messa nel novero dei guaritori. Anzi, la Jones rimargina le ferite del cuore, di quei “...piccoli cuori infranti” che sanguinano finché qualcuno non cauterizza le ferite. Domenticate la Norah Jones di “Come away with me”, che dieci anni fa ne decretò il successo mondiale, con 25 milioni di copie vendute, e quel jazz-pop raffinato che diventò un marchio di fabbrica della seduzione sonora, e non solo. A proposito di seduzione: la Jones si propone truccata da eroina di Russ Meyer (il famoso regista americano degli anni ’60 con la fissa delle tette enormi), e si mette in gioco come femme fatale, quasi una Jane Birkin della contemporaneità, cantando licenziosa come se la serata fosse già avviata verso prospettive peccaminose. Voluttuosa e sensuale, novella Jessica Rabbitt senza le forme d’ordinanza, Norah Jones si gioca tutto con una sensualità vocale ammiccante ma raffinatissima, quella delle donne che ammiccano promettendoti il Paradiso, ma che al momento decisivo fuggono come Cenerentola a mezzanotte. L album è splendido, anche perché il compagno di giochi si chiama Brian Burton, già con Gnarls Barkley, Beck e Black Keys (ed in procinto di affiancare U2, dicunt) , produttore fra i più innovativi e richiesti sul mercato E’ lui che ha trasformato il pop-jazz di Norah Jones in qualcos’altro, tant’è che il pianoforte, strumento principe della ragazza, è praticamente scomparso. Sensuale e malinconico, “…little broken hearts” è un buon viatico per chi ha mal di cuore, ma è insensibile ai cardiotonici.