Presidente, lei ha una vasta esperienza dell’amministrazione della Giustizia: è stato giudice penale, civile, membro del Csm e finanche avvocato. Perché il sistema Giustizia in Italia è al collasso?
Ritengo che i motivi per cui in Italia la giustizia non funzioni sono molteplici. Tra questi c’è sicuramente l’estrema litigiosità dei cittadini ma anche l’oggettiva facilità di trovare un avvocato. In Italia ci sono oltre 200mila avvocati e solo a Roma ne risultano iscritti all’albo più di 20 mila. A volte, le parti introducono una causa solo per guadagnare tempo, e il risultato è quello di rallentare e paralizzare la giustizia.
Insomma, tra i responsabili c’è anche il cittadino che ricorre troppo alla giustizia?
C’è senza dubbio un abuso del processo; ma, in Italia, a creare contenzioso è anche la Pubblica amministrazione, che crea contenzioso sotto vari profili: la confusione nel funzionamento degli uffici, il ritardo dei pagamenti, la inefficienza generalizzata degli uffici della pubblica amministrazione. Pensi solo all’aggiornamento catastale: spesso non si riesce nemmeno a sapere a chi appartiene un terreno! Il catasto è fermo a 30, 40 anni fa e quindi non c’è un’attualità catastale, soprattutto nelle gradi città. Si verificano casi nei quali si cita in giudizio colui che al catasto risulta essere proprietario di un terreno ma che in realtà non lo è più da decenni perché nel frattempo ha venduto ad altre persone, occorrerebbe ogni volta effettuare tutte le visure ipotecarie proprio perché il catasto non è attendibile.
Eppure la Giustizia in Italia è molto onerosa per il cittadino che vi ricorre. Ultimamente il Contributo unificato per iscrivere i ricorsi a ruolo è aumentato ben due volte: a luglio del 2011 con il governo Berlusconi e a dicembre con il governo Monti. Non costa troppo la Giustizia?
No, vede, dirò una cosa impopolare ma in Italia il costo della giustizia è bassissimo, il più basso d’Europa! Nonostante il raddoppio delle spese di iscrizione , il costo per il cittadino è ancora inferiore alla media europea. E’ stata la giustizia più economica d’Europa per 50 anni e quindi la massa di processi si è formata prima dei recenti, e non decisivi, aumenti delle spese. Scusi presidente, ma gli avvocati sostengono che le spese, a fronte di una giustizia lenta e inefficiente, sono troppo onerose per i cittadini e d’altronde due aumenti in un solo anno rischiano di rendere la giustizia civile accessibile solo ai più abbienti. Non crede? Pochi anni fa ad un convegno qui a Roma, organizzato dal CSM, si discuteva del problema tutto italiano, da un lato della eccessiva durata dei processi e dall’altro del basso costo della giustizia civile. Il Ministro della Giustizia inglese prese la parola e disse che nel suo Paese era esattamente il contrario: processi veloci ma costo altissimo. Quindi è chiaro che il basso costo incentiva il ricorso alla giustizia. Ma se da un lato i costi bassi della giustizia favoriscono un eccesso di ricorsi, dall’altro però provocano un rallentamento del sistema, per cui alla fine chi ci rimette è sempre il contraente più debole, perché la maggiore durata dei processi grava sempre sul cittadino che è in difficoltà. Prenda il caso delle assicurazioni: il danneggiato ha tutto l’interesse ad avere un processo ragionevolmente breve mentre l’assicurazione, a volte, può giovarsi dei ritardi per posticipare un pagamento.
L’origine della lungaggine dei procedimenti può dipendere anche dalla eccessiva proliferazione delle leggi?
La prima causa del rallentamento della giustizia civile, lo insegnava anche Salvatore Satta, è la Novella del 1950, che scardinò il sistema delle preclusioni e delle decadenze che erano previste nel codice di procedura civile, sistema che poi è stato reintrodotto con la legge n. 533 del 1973, di riforma del processo del lavoro, e poi con successive riforme sul processo civile, destinate ad imprimere una certa speditezza al processo civile ordinario, rimasto comunque sempre assai al di sotto del modello giuslavoristico. La legge n. 353 del 26 novembre 1990, intestata “ provvedimenti urgenti per il processo civile”, ha subito una serie di rinvii e di modifiche per cui è entrata definitivamente in vigore solo dal 30 aprile 1995, con buona pace dell’urgenza. Dal primo gennaio 1993, intanto, è stata attribuita a tutte le sentenze civili di primo grado la provvisoria esecutività, fino a quel momento riconosciuta solo alle decisioni del giudice del lavoro contenenti condanna a favore del lavoratore. Ma certo non bastano interventi parziali, perché gli interventi devono essere più strutturali ed interessare l’intero sistema giustizia. Anzi la proliferazione occasionale e disorganica delle leggi, civili e penali, sostanziali e processuali, con interventi spesso contraddittori a brevissima distanza di tempo, aumenta a dismisura la confusione nel lavoro degli operatori della giustizia, come ben sanno anche gli Avvocati, a scapito della efficienza dell’attività giurisdizionale.
Con la riforma del mercato del lavoro approvata dal Senato, secondo il ministro del Lavoro Fornero, l'articolo 18 diventa «europeo» e non «cancella le garanzie per i lavoratori». E’ d’accordo?
Vede, l’idea di introdurre un rito semplificato per i licenziamenti è un autogol. Il processo del lavoro è nato nel 1973 e un procedimento era destinato ad esaurirsi in due mesi, tre al massimo! Se non ci siamo riusciti , è semplicemente perché ci sono troppi processi. Introdurre un canale privilegiato senza dare le strutture adeguate per smaltire il carico di lavoro che ne deriverebbe, significa cadere nello stesso errore, anzi peggiorarlo! Non c’è nessun bisogno di un processo speciale in un rito già speciale come quello del lavoro, perché se gli uffici giudiziari fossero messi in grado di funzionare come dovrebbero, si emetterebbe una sentenza entro 90 giorni.
La riforma del lavoro, approvata dal Senato, ora passa all’esame della Camera. Ma sembra criticata anche dagli avvocati...
Nel processo del lavoro, secondo me, non c’è quasi nulla da modificare: come già detto, con un maggior numero di giudici e di personale di cancelleria, e con adeguate dotazioni di mezzi, dai PC alle biblioteche, il rito così com’è consentirebbe un ulteriore incremento quantitativo e qualitativo del lavoro dei magistrati. Nel merito dei provvedimenti legislativi non mi addentro. Posso solo confermare, per conoscenza diretta, che gli unici Paesi europei ad avere una norma esattamente coincidente con il nostro art. 18 nel testo tuttora vigente sono la Grecia ed il Portogallo, che entrambi al nostro sistema si sono ispirati nella seconda metà degli anni 70. In tutti gli altri Paesi, fermo restando il divieto del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, e la previsione della tutela c.d. reale, vi è sempre la possibilità, per il datore di lavoro, di rivolgersi nuovamente al giudice chiedendo la sostituzione dell’ordine di reintegrazione con un risarcimento economico in favore del lavoratore; in questi casi, comunque, il risarcimento del danno può essere anche molto elevato.
L’altro problema della lentezza della giustizia?
Carenza di strutture e di personale. E’ necessario potenziare il servizio degli ufficiali giudiziari, perché spesso accade che i processi vengano rinviati a causa di una notifica sbagliata. Tutti i magistrati e gli avvocati sanno bene cosa occorrerebbe fare in concreto. Intanto bisogna coprire (non certo ampliare) l’organico dei magistrati: il numero previsto dalla legge è di 10.151, tra giudicanti e requirenti, mentre attualmente siamo circa 8.700: ne mancano all’appello circa 1500/1700. E’ chiaro che ciò costituisce un problema. Colmare i vuoti dell’organico nazionale sarebbe già un grosso passo avanti verso un significativo recupero di efficienza.
Poi bisogna intervenire sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie, sopprimendo i piccoli tribunali e le sezioni distaccate. Noi magistrati lo chiediamo da oltre 50 anni. Ciò, oltre alla redistribuzione degli organici della magistratura, consentirebbe un recupero enorme anche di personale delle cancellerie. In molte sezioni distaccate non c’è nemmeno un giudice fisso, ma il personale amministrativo c’è ugualmente, e queste sono risorse sprecate. Altro punto debole degli uffici giudiziari, infatti, rappresentato dall’organico del personale di Cancelleria, con poco personale e un lavoro enorme da smaltire. Alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie però si oppongono da decenni gli interessi localistici degli amministratori dei comuni interessati, che vedono nella presenza del tribunale, o anche di una sezione distaccata, o di in ufficio del giudice di pace, vedono una ragione di prestigio e una fonte di guadagno.
Personalmente ritengo poi che bisognerebbe seriamente porre mano ad una legge che preveda anche nei rapporti tra cittadini italiani a carico della parte soccombente l’applicazione di interessi giudiziari rispetto a quelli legali. E’ noto che la parte debitrice che resiste al giudizio ci guadagna anche quando perde la causa perché paga soltanto gli interessi al tasso legale, magari dopo anni, ed anche applicando la rivalutazione e poi gli interessi sulle somme rivalutate il pregiudizio per la parte soccombente risulta in definitiva inferiore al vantaggio derivante dalla prolungata disponibilità delle somme dovute.
Il problema quindi per le Corti d’Appello è l’endemica carenza di personale, anche amministrativo e l’enorme mole di ricorsi che vengono dai tribunali. Si, ma non solo. Oltre alla carenza di organico e di personale amministrativo, soffriamo anche del problema delle strutture. Ad esempio, la Corte d’Appello Lavoro di Roma, articolata su cinque collegi con altrettanti presidenti di sezione, può contare su una sola aula di udienza. Quindi ognuno di noi può fare udienza solamente una volta la settimana perché dovendoci alternare in un’aula, questa è l’unica opzione. Anche volendo non possiamo farne di più, per carenza di aule e di personale da inviare in udienza! Il carico di lavoro è altissimo: ogni settimana andiamo in udienza con una media di 170 fascicoli da decidere per sezione, quindi ogni magistrato ha un carico di circa trenta fascicoli ad udienza.
Separazione delle carriere ed eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.La separazione delle carriere non risolverebbe nessuno dei problemi della giustizia neanche dal punto di vista della terzietà, né dell’autonomia del giudice. Vede è già previsto che, proprio per acquisire la cultura della giurisdizione, il magistrato faccia esperienza prima come giudice e poi come pubblico ministero, e questa soluzione – finora vanificata dalle già evidenziate carenze nell’organico, che impongono di assegnare fin dall’inizio ai nuovi magistrati anche uffici di procura – appare già utilissima ai fini della ulteriore preparazione professionale dei PM.
Inoltre la separazione delle carriere sarebbe un primo passo per l’assoggettamento del pubblico ministero all’Esecutivo, altrimenti non avrebbe alcun senso. Ed è bene sottolineare che se è vero che la Costituzione Italiana assicura alle Procure della Repubblica un grado di autonomia superiore a quello che si riscontra nel resto d’Europa, è altrettanto vero che in molti Paesi, come la Francia e la Spagna, è in corso un forte movimento rivolto proprio ad accentuare l’autonomie delle procure dall’esecutivo, ispirandosi al modello italiano, ed è davvero paradossale che l’Italia, a cui l’Europa guarda come ad un modello, facesse un salto all’indietro rispetto al disegno delineato dai nostri Costituenti.
Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale, a titolo strettamente personale mi sento di dire che, rispetto alla abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, troverei meno devastante che periodicamente venissero indicate dal Parlamento (non dal Governo) delle priorità: il Legislatore, nella nostra Costituzione, ha infatti il potere di stabilire quale comportamento costituisce reato e quale no, e di stabilire la sanzione. Quindi, ove la magistratura inquirente non sia concretamente in grado di dare corso a tutte le notizie di reato, il Legislatore potrebbe anche indicare i reati da perseguire in via prioritaria, ad integrazione potere legislativo vero e proprio; di tali scelte, ovviamente, il Parlamento risponderebbe poi al corpo elettorale. (FdJ)