Vasco Rossi (La Repubblica, 1999)
“Mi accompagnerà sempre la sua grande umanità vissuta senza chiedere niente in cambio, una cosa rara oggi, e non solo nel nostro ambiente”
Ivano Fossati (Il Corriere della sera, 2009)
“La memoria di Fabrizio merita oggi di sfuggire all’aneddotica pret à porter cui vengono fatalmente adattate le figure dei grandi artisti quando non sono più in grado di confutare o di precisare. Quando gli amici, i compagni di strada, quelli che sanno, che hanno visto, quelli che c’erano, si moltiplicano a dismisura”.
Radio Vaticana (1999)
“Aveva dato voce all’inquietudine esistenziale dell’uomo d’oggi. Veniva dall’alta borghesia ma ha passato la vita a denunciare le ipocrisie del vivere borghese. Della sua Genova aveva cantato il lato più torbido, della vita quello più drammatico. Nei suoi testi c’è il costante legame con intellettuali non soltanto europei. La sua voce, calda nel timbro e fredda nel fraseggio, aveva cantato il lato scuro del mondo”.
Paolo Villaggio (Panorama, 1999)
Fabrizio aveva una consapevolezza ipertrofica, penso che l’abbia conservata anche negli ultimi istanti. Io non so adesso dove sia, ma mi piacerebbe incontrarlo e farmi raccontare, con le dovute esagerazioni come faceva lui, che cosa è accaduto. E siccome mi ricordo di come da ragazzino fosse terrorizzato dall’idea di non farcela, gli direi: “Faber, non temere, te la caverai anche questa volta alla grande”
Luciano Berio (La repubblica, 1999)
Di lui ammiravo il suo senso assoluto di libertà interiore e soprattutto di rigore. Un rigore che ha segnato la sua storia politica, fatta appunto di rigore e libertà. E’ riuscito a non essere mai succube delle regole del mercato e non ha mai rinunciato a quel raro ingrediente comune a tutti i liguri che amo, per esempio Sanguineti e Calvino: l’ironia.
Michele Serra (La Repubblica, 1999)
Noi ragazzi degli anni sessanta ci innamorammo dei suoi eroi malvisti, derelitti, borghesucci ipocriti, giudici spietati, beghine pavide. Quella stessa potente , preziosa materia – la percezione che il mondo è ingusto ed ottuso – che la politica, di li a poco, avrebbe bruciato come carta straccia, nelle canzoni di De Andrè faceva una luce incantevole, la mite e durevole luce dell’arte. E la ferita emotiva che quelle parole, quelle ballate aprivano nell’anima, corrispondeva all’intuizione che l’arte e la poesia fossero la più radicale delle rivolte.
M.I.