Censis, la crisi della sovranità


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Pochi punti fermi, nessuna certezza

Per le vie d’uscita possibili g

di Rita Piccolini

Alla vigilia dell’importante vertice europeo di Bruxelles, dove si decidono i destini economici e sociali di interi Stati e il futuro dell’Europa stessa, al Censis si è chiuso il ciclo di incontri del tradizionale appuntamento di riflessione di giugno “Un mese di sociale”, dedicato quest’anno a “La crisi della sovranità”. Al dibattito, animato dal direttore Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita, hanno partecipato il presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, Giuliano Amato, il direttore del Foglio Giuliano Ferrara, l’editorialista del Corriere della sera Massimo Franco, Antonio Pedone, ordinario di Scienze delle Finanze della Sapienza di Roma, Mario Sarcinelli, presidente Dexia Crediop.

Sono più interrogativi quelli che emergono nell’incontro che risposte. E’ il segno dei tempi. Nessuno sa veramente dove ci porterà questa terribile crisi speculativa che, partita in sordina dagli Stati Uniti nel 2008, ha investito in pieno un ‘Europa fragile, divisa, incattivita, prigioniera di logiche particolaristiche, stanca e spaventata. La stessa Angela Merkel , parlando al Parlamento tedesco, ha dichiarato che non ci sono certezze, solo la consapevolezza che la via per la salvezza dell’euro e dell’Unione Europea sarà lunga e dolorosa. Stesso concetto ribadito poi al presidente francese Hollande a cui ha espressamente dichiarato che “non ci sono soluzioni facili”.

Nessuna certezza ancora, si spera se ne intravedano al termine del Consiglio Europeo di questo fine settimana, ma qualche punto fermo, uni dei quali è quello messo a fuoco dal rapporto del Censis: bisogna liberarci dal peso del debito per riconquistare sovranità. Il debito non solo ci fa dipendere dai mercati finanziari internazionali, ma produce anche un rallentamento del Pil che storicamente è cresciuto in media del 3,9% annuo con un rapporto debito/Pil sotto il 90%, ed è sceso dell’1,1% con un rapporto superiore al 90%.

“Continueremo ad essere eterodiretti finché permarrà la zavorra del debito pubblico e la dipendenza dall’andamento dello spread” sintetizzano al Censis. Ma come liberarcene? Non con misure coercitive. “Ogni forma di tassazione o di imposta patrimoniale andrebbe esclusa, per gli effetti ulteriormente depressivi sull’economia e sulla società che ne deriverebbero”. Questo è un altro punto assodato. Si potrebbe utilizzare il patrimonio pubblico, con un “conferimento degli asset a fondi o altri strumenti di intermediazione che possano produrre risultati immediati attraverso la sottoscrizione di quote da parte dei cittadini”. Ecco un’altra ricetta che esclude però la vendita delle partecipazioni che sarebbe controproducente, visti gli attuali andamenti della Borsa. Andrebbe esclusa anche la dismissione del patrimonio immobiliare con un mercato stagnante come quello attuale.

A questo proposito Mario Sarcinelli ha ricordato che è dagli anni Novanta che si pensa di ridurre il debito grazie al presunto miracolo della vendita di caserme, case cantoniere, fari, edifici pubblici non utilizzati… Idea bislacca e inutile. In uno studio di quegli anni si ipotizzò addirittura la vendita dei ghiacciai ( a chi? Per fare cosa) e comunque il pensiero malsano che c’era dietro era che il valore del nostro patrimonio artistico era superiore al debito pubblico, e quindi era possibile continuare a indebitarci allegramente, come i naufraghi inconsapevoli di una nave alla deriva. Sarcinelli si dimise dalla carica di direttore generale del Tesoro nel 1991 proprio per il problema insormontabile del debito pubblico. Ma questa storia, che era l’anticamera della tragedia attuale, non colpì molto né la stampa, né di conseguenza l’opinione pubblica.

Ma torniamo all’oggi. Tra i punti fermi segnalati dal Censis c’è anche quello della necessità di ricostruire la politica della rappresentanza che “persegua interventi di medio e lungo termine sui conti pubblici, a livello nazionale, e svolga un ruolo attivo nell’adeguamento degli strumenti di governo monetario, a livello europeo e globale”. Al contrario oggi si assiste a un chiamarsi fuori della politica e alla ricomparsa di un qualunquismo incattivito dalla crisi e della scarse prove di sé date soprattutto dalle forza politiche, che sembrano stiano a guardare l’operato del governo tecnico, come se la cosa non le riguardasse direttamente, preoccupate solo di elaborare strategie elettorali vincenti in vista delle prossime elezioni ( a ottobre o a scadenza naturale nella primavera del prossimo anno che siano). E qui il commento dei presenti è duro e converge su uno stesso punto (un altro dei pochi punti fermi), pur partendo da analisi e posizioni diverse. Sorreggere Monti e l’euro è un imperativo sia per Giuliano Ferrara che per Massimo Franco. “Sostenevo che sarebbe stato opportuno votare sotto la neve dopo la caduta del governo Berlusconi - ricorda il direttore del Foglio, così non è stato. Ora sono un montiano per disperazione”. La situazione attuale è insidiosissima perché si sono sommati due debiti spiega Ferrara: il primo in lire, eredità degli anni Ottanta e Novanta, dietro il quale c’era Bankitalia; il secondo in euro dietro cui c’è il nulla e che è del tutto fuori controllo. E’ pericoloso e sbagliato mettere in discussione l’euro, tuttavia è lecito chiedersi come si fa a non poter manovrare il tasso di inflazione? Come si incanalano i debiti sovrani nella moneta unica? E il piano B? Il piano B non esiste. Il problema è strutturale.

Pessimista anche Massimo Franco. Allarmato dagli atteggiamenti “autolesionistici e suicidi” delle forze politiche che non hanno capito, in questi ultimi dieci anni, che tutto l’occidente era ed è esposto agli attacchi della speculazione dei poteri finanziari. C’è un vuoto di rappresentanza preoccupante, perché non si capisce ancora chi andrà a riempirlo. Non sappiamo intorno a quali interessi i poteri si compatteranno. Preoccupa la faciloneria con cui si parla di un eventuale abbandono dell’euro, senza riflettere sul fatto che l’euro è uno strumento di pace sociale in Europa. Certezze? Una: che la speculazione non si fermerà e la considerazione che siamo “un grande Paese” non elimina la possibilità che si possa fallire. Rimane solo la via della maggiore integrazione europea, per evitare la disintegrazione e l’imbarbarimento, o addirittura una deriva di tipo sudamericano alimentata dallo sviluppo delle micro -sovranità. Poi il giornalista spiega che per il bene della nostra economia e per attrarre gli investitori “dobbiamo essere noiosamente prevedibili all’estero”. Tema quello della prevedibilità rilanciato con forza nell’intervento del professor Pedone che spiega come la prevedibilità nasca da analisi serie, dal monitoraggio, dai “piani di intervento sulla controllabilità”.

Su una via d’uscita possibile dalla crisi del debito pubblico che avrebbe potuto essere intrapresa, nel momento in cui l’opinione pubblica italiana comprese a fondo la drammaticità della situazione nazionale, nel momento cioè delle dimissioni di Berlusconi lo scorso novembre e l’incarico a Monti, si trovano d’accordo anche Giuliano Amato e Giuseppe De Rita. Allora gli italiani spaventati e consapevoli avrebbero accettato misure molto forti, come di fatto hanno digerito la riforma delle pensioni che è passata con poche ore di sciopero. Era quello il momento di agire, con “una o due tantum corpose”, aveva suggerito Amato, e prima di imbarcarsi in discussioni ideologiche interessanti, ma inutili alla risoluzione dei problemi. Allora c’era la propensione ad accettare la sfida, sostiene anche De Rita , perché c’era la disponibilità a ricomprarsi parte della sovranità perduta a causa del debito pubblico. Ma poi tutto è stato annacquato da dibattiti inutili in quel momento, sul numero dei farmacisti per esempio o sull’articolo 18, quando invece bisognava subito intaccare il debito. Un’occasione mancata . Le risposte le aspettiamo ora dal vertice di Bruxelles.