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Equità e sviluppo: una strada impervia

Dal libro dell'economista Nicola Cacace

di Francesco Chyurlia
(f.chyurlia@rai.it)

Siamo tutti in attesa. In attesa che cambi il vento. In attesa che arrivi qualcosa o qualcuno che riporti il clima della nostra economia ad un “sereno stabile”. Ma le turbolenze, provenienti dagli Usa nell’ormai lontana estate del 2007, non sembrano intenzionate ad abbandonare il Vecchio Continente. Dopo aver cambiato direzione e intensità i venti della crisi si sono accaniti sui Paesi economicamente più fragili, come Grecia, Spagna e Italia. Nessuno è in grado di stimare la durata di questa crisi che non rispetta le regole storicamente consolidate della ciclicità. E’ come se il cataclisma finanziario globalizzato, che ha colpito indistintamente tutti i soggetti economici mondiali, avesse fatto affiorare anche tutti i limiti di questi soggetti.

Che fare? Molte le ricette messe in campo in Italia in questa difficile fase di recessione. Mettendo da parte quelle proposte dagli schieramenti politici (volutamente saliti sull’Aventino), spiccano in questo periodo quelle di un ingegnere-economista, Nicola Cacace, napoletano esperto di previsioni tecnologiche. In un libro di 155 pagine dal titolo “Equità e Sviluppo, il futuro dei giovani:previsioni al 2020”, edito dalla Franco Angeli (in vendita a luglio), si evidenzia la gran parte dei parametri economici del Bel Paese e le loro criticità. E quello che non guasta, insieme alle previsioni, Nicola Cacace offre una infinita serie di ricette pratiche e inedite per aiutare i giovani (ma non solo) a cavarsela in tempi di crisi. “All’Italia –dice Cacace- servirebbero tre milioni di nuovi posti di lavoro per essere in media ‘tasso di occupazione’ europeo (dal 57% italiano al 64% europeo)”. Ma, l’obiettivo per il nostro Paese e quasi impossibile,anche se si prendesse in considerazione un decennio. Non basterebbe, spiega l’economista partenopeo, “invertire la rotta negativa seguita dal Paese su eguaglianza, innovazione, cultura, sapere, corruzione, evasione fiscale, merito e puntando decisamente sulla qualità”.

Cacace, nel suo libro, propone per il nostro Paese alcuni modelli di crescita occupazionale messi in cantiere dai nostri partner europei più forti. Per esempio illustra il famoso (ma ai più sconosciuto) modello tedesco che “ha consentito di mantenere inalterata l’occupazione in presenza di un calo del Pil del 6% nel 2009”. Forse non tutti sanno che “la produttività oraria normalmente cala all’aumento delle ore di lavoro” e in Germania Hernest Abbè cita “un’esperienza fatta negli stabilimenti Zeiss a Jena” dove “riducendo l’orario da 9 a 8 ore le produttività crebbe del 16%”. E aggiunge: ”Paesi con orari annuali più corti hanno alta produttività e anche tassi d’occupazione più alti, mentre Paesi come l’italia, Ungheria e Grecia, con orari di lavoro più lunghi hanno tassi di occupazione e produttività più bassi”. Il modello tedesco è fatto di questo, ma anche di altri importanti elementi di novità che non appartengono alla nostra cultura del lavoro. Altri due sono i punti vincenti del sistema: “Conti individuali di lavoro (gli straordinari non si pagano ma vanno in un conto individuale che azienda e lavoratore utilizzano a seconda dei rispettivi bisogni; durante la crisi gli operai hanno fatto più vacanze e l’azienda ha ridotto il costo del lavoro), cioè orari ridotti (con riduzione di salario compensato al 60% dal welfare). Durante la crisi gli orari si sono ridotti del 10% e i salari del 4%”. Una suggestione, quella indicata dall’economista, che potrebbe suggerire a imprenditori e sindacati italiani la via virtuosa di un originale modello italiano che crei sviluppo e occupazione nel breve-medio periodo.