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13 gennaio

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Lo chiamavano “Pirata”. Perché non aveva paura di nessuno. Marco Pantani era il campione coraggioso che la gente amava ed aveva atteso a lungo, eroe di un ciclismo di altri tempi, generoso e impulsivo.

Così tagliava spesso in fuga il traguardo del cuore di tutti coloro che amano lo sport, non solo il ciclismo. Grande nelle vittorie e nelle sconfitte, scalatore delle Alpi e delle vette più alte della vicenda umana.

Così il suo addio nel febbraio del 2004, da solo e a faccia riversa in giù in una stanza da albergo, ne rese la leggenda ancora più tragica.

Era nato a Cesena 34 anni prima: il 13 gennaio del 1970. Aveva ancora qualche capello quando andò all'attacco contro Miguel Indurain sulle Dolomiti nel Giro del '94. Non era nessuno, ma era già un campione. Ci mise quattro anni ad arrivare in cima al mondo, senza sapere quando dura sarebbe stata la caduta da tanto in alto: Giro e Tour nello stesso anno, nel '98. Era l'impresa di Gimondi, 1965: ciclismo in bianco e nero, e prima ancora di Coppi. Ma quello di Pantani, simile per dimensioni, era un ciclismo per altri versi diverso, era già un ciclismo mediatico: volava in montagna e sapeva anche dirlo. ''La fatica in montagna per me è poesia''. Lo disse a 24 anni, quando non era nessuno. E metteva in crisi il principe spagnolo del ciclismo.

Grandi cadute, anche: quelle sull'asfalto che lo hanno mandato tante volte in ospedale. E la grande caduta del giugno '99, in un albergo di Madonna di Campiglio, poco dopo l'alba: tasso di ematocrito troppo alto. Fu la cacciata dal Giro, l'autoesilio. E fu soprattutto l'inizio di una dolorosa vicenda umana.
Sarebbe potuto tornare a correre dopo 15 giorni, e ripresentarsi al Tour. Nessuno gli avrebbe detto nulla. Non più di quanto è stato detto ai tanti che sono tornati. Invece Marco preferì sparire per un anno. Nel 2000 il ritorno a sorpresa, alla vigilia del Giro. E fece vincere Garzelli, il suo delfino. Ed il Tour, nel 2000: quando riuscì a sfidare Armstrong. Che gli lasciò una vittoria e lo fece infuriare. Ma il Pantani atleta non era più all'altezza dei sogni del Pantani uomo. Si ritirò, in quel Tour. E volle anche le Olimpiadi. E furono ancora polemiche roventi, ancora una volta per valori del sangue sballati.

Da allora un inseguimento con se stesso: le inchieste, i tribunali, le rivelazioni, i ritorni. E l'estate del 2003 il ricovero in una clinica specializzata in cura delle depressioni e delle dipendenze.

In sella, aveva reinventato il ciclismo. Aveva dimostrato che si poteva vincere facendo venire i brividi alla gente: sul Mortirolo, a Montecampione, a Les deux Alpes. Dovunque ci fosse una salita dura era lì. Con la sua bandana era il mito in bici. Per lui centinaia di migliaia di tifosi sulle strade. Un rombo nella valle era il segno che Marco era partito. Quando volava lo accompagnava l' urlo della gente.

Ma dentro al ciclista c'era l' uomo orgoglioso che non accettava critiche e sconfitte. ''Ha pagato tutto troppo caro'', dice Gimondi. Ed il ciclismo piange la morte di un pirata fragile, ma indimenticabile.


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Il 13 gennaio nella storia

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