di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)Diane Birch
Bible belt (s-curverecords)
Ventotto anni, visetto da liceale, frangetta birichina, occhioni da cerbiatta. Diane Birch potrebbe rappresentare il prototipo fisico della ragazzina pop, di quelle che si smutandano davanti a Justin Timberlake e squittiscono per Rihanna. E invece, surprise! Diane Birch è una “giovane vecchia”. L’educazione familiare ha inciso profondamente nella sua formazione culturale, e lo si intuisce già dal titolo del suo album di debutto, “Bible belt” (la cintura della Bibbia), che fa capire subito quanto dura sia stata la costrizione religiosa e quanta la fatica per liberarsene. Figlia di un pastore avventista, Diane Birch è cresciuta in chiesa, a doppia razione di gospel e musica sacra. La ragazza ha introitato il tutto, ma il sapore retrò della sua musica le ha procurato più d’una critica in patria (dove, a conferma, nessuno è profeta). Con un bel po’ di ritardo l’album è stato pubblicato in Europa, dove l’accoglienza alle forme d’arte d’antan è sempre più calorosa che Oltreoceano. E’ fin troppo facile trovare in “Bible belt” tracce di Laura Nyro, Joni Mitchell, Carole King, Carly Simon, la crème de la crème del cantautorato americano al femminile degli anni ’70. Ma le molte arie soul ci dicono anche che le lodi al Signore sono rimaste impresse nel dna della ragazza, come anche qualche ammiccamento a Burt Bacharach, uno dei pochi ammessi sul giradischi di casa Birch. “Bible belt” potrebbe tranquillamente confondersi nell’anonimato delle tante uscite discografiche, se non avesse l’ organo Hammond a riempire i solchi, i cori gospel, il groove della Stax, il garbo di Carole King, e la voce della Birch, piena, versatile, morbida ma con gli spigoli giusti. E poi le canzoni, che guardano indietro con la modernità del presente, senza fare il verso ad Amy Winehouse o Norah Jones. Aspettiamo la conferma per sapere se è nata una stella, o se la stella è cadente. Daniel Martin Moore
In the cool of the day (Subpop)
Tanto per rimanere nel tema dei giovani “vecchi”, anche il kentuchiano Daniel Martin Moore è iscritto d’ufficio al club. “In the cool of the day” è il suo terzo album. Il primo, “Stray age”, è del 2008. Anche qui l’influenza religiosa si fa sentire, le frequentazioni parrocchiali della domenica lasciano un’eredità sonora difficilmente editabile. Siano nel profondo della provincia americana, famosa per il pollo fritto, e dove ogni tanto ammazzano qualcuno nei supermercati, tanto per ravvivare la giornata. Daniel Martin Moore è un folksinger, che lavora fondamentalmente in duo con la sua chitarra. Ma non senza opportune deroghe, come quando in “Dark road” riesuma il folk tradizionale da orchestrina, con tanto di banjo, spazzole, contrabbasso e pianoforte. Ma l’essenza di “In the cool the day” è imbevuta di inni religiosi della tradizione, riletti in modo decontestualizzato, di fatto “desacralizzati”. Ascoltare, tanto per gradire, “Up above my head”, gospel degli anni ’50, interpretato all’epoca da Sister Rosetta Moore e Marie Knight, e qui riproposto in chiave folk-jazz. Oppure “Softly & tenderly”, scritta dal reverendo William Thompson nel 1880 e riletta in versione assai intimista, piano e voce. Nell’album anche quattro composizioni originali di Moore, tra le quali spicca la commovente “O my Soul. Molta fede, nella calma del giorno. Ma anche molta arte.