di Fabrizio de Jorio
La Mia ‘ndrangheta è un libro verità, una storia di una giovane donna calabrese, della sua sofferenza, della sua solitudine e della battaglia contro la ‘ndrangheta e contro l’indifferenza delle istituzioni. L’ha scritto Rosy Canale insieme alla giornalista di Io Donna, Emanuela Zuccalà, per raccontare e denunciare le violenze delle ‘ndrine calabresi e condividere con i lettori e con le future generazioni che, se le donne si ribellano, se le persone oneste dicono No, la mafia si può battere. A caro prezzo, certo, ma si può. Rosy Canale, la donna coraggio, non è l’unica in Italia che si è opposta alle mafie, ma il suo caso è volato oltre i confini nazionali: alcuni mesi fa The Guardian ha raccontato ai lettori inglesi la storia di questa ragazza poco più che 40enne, piccola di statura, minuta, la ragazza della porta accanto che ha osato sfidare la potente organizzazione criminale calabrese.
I lettori del quotidiano si sono chiesti come mai è stata lasciata sola e si sono indignati quando lei ha raccontato la sua storia e le violenze subite senza che lo Stato intervenisse. Ma oltre alle minacce e alle intimidazioni Rosy ha subito una violenta e brutale aggressione a bastonate e con il calcio della pistola da uomini delle cosche che l’hanno ridotta in fin di vita. Ma lei, dopo mesi di ospedale, ha curato le ferite, si è rialzata e ha continuato la sua battaglia contro la potente Holding del crimine.
La storia inizia tanti anni fa, quando nella sua Reggio Calabria, Rosy decide di intraprendere l’attività di ristorazione: in pieno centro del capoluogo calabrese apre il Malaluna, locale stile newyorkese, che in poco tempo diventa il centro della movida reggina. Ma il successo del locale, frequentato da tanti giovani, non sfugge alla ‘ndrangheta che controlla il territorio e subito la manovalanza delle ndrine si fa avanti. Malaluna, dicono gli ndranghetisti, deve diventare la piazza di spaccio della droga a Reggio, perché le cosche lo hanno scelto come locale strategico. Lì i giovani reggini si possono incontrare e rifornire della droga spacciata dalla ndrangheta.
Ma il sogno di Rosy era un altro e fieramente si rifiuta, semplicemente dice No. Non cede alle minacce, né alle pressioni che gli uomini delle ndrine intensificano per costringerla a mollare. Ma come può una donna, sola, senza protezione, sfidare la mafia? I boss si riuniscono, fanno un summit e tra le altre cose decidono sulla questione della proprietaria del Malaluna: quella donna deve essere punita perché il suo atteggiamento rischia di mettere in pericolo l’egemonia e finanche l’immagine della ndrangheta in tutta Reggio e in Calabria.
“Ci pensate voi -dicono i boss- che se si sa in giro che una donna sola ha detto no alla ndrangheta e noi non facciamo niente, nessuno più ci paga il pizzo?”. L’ordine parte e gli emissari dei boss intercettano la donna che ha sfidato il crimine, l’illegalità, la potente ‘ ndrangheta. La massacrano a bastonate, a colpi di calcio di pistola in bocca. ”Quasi tutti i miei denti erano rotti. Avevo la frattura della mascella, della clavicola, diverse costole e una gamba rotte. Prima di lasciare l’ospedale-ci racconta Rosy senza rabbia ma con molta amarezza- dopo 8 mesi di degenza, i medici hanno dovuto ricostruire la mia bocca e per molto tempo ho dovuto essere alimentata attraverso un tubo. Sono arrivata a pesare meno di 40 chili”.
Il calvario per la riabilitazione dura altri tre anni durante i quali Rosy Canale si trasferisce a Roma dove si sottopone a cure intense per articolare il linguaggio. “Avevo bisogno di imparare a parlare di nuovo perché la mia lingua era stata danneggiata. Ancora oggi, a causa delle fratture, non riesco a correre. La mia mano destra era così gravemente ferita che non riesco più a suonare il piano. Questo è il prezzo che ho pagato per essere una persona onesta.”
Una donna che ha dimostrato di non cedere né alle intimidazioni, neanche dalla testa di coniglio insanguinata lasciata di fronte casa dei suoi genitori, né dalle minacce: per il bene della sua famiglia, tuttavia, è costretta ad emigrare negli Usa, dove ora vive in una località segreta e protetta dall’affetto di sua figlia Micol e del suo nuovo compagno (vedere intervista) . Durante la lunga fase della depressione, Rosy coltiva sempre il sogno di tornare nella sua amata Calabria. La decisione avviene in coincidenza con la famosa strage di Duisburg, avvenuta in Germania il 15 agosto del 2007. Sei persone vennero uccise fuori da una pizzeria nella città tedesca di Duisburg, dove avevano partecipato ad rituale di iniziazione mafiosa. Tre di queste vittime erano di San Luca – paesino della Calabria, teatro di una faida letale fra famiglie rivali della ndrangheta culminata con la strage. L’allora prefetto di Reggio Calabria, lanciò allora un concorso di idee per presentare un progetto che potesse rappresentare una svolta, una nuova speranza per una vita nuova e diversa a San Luca.
Il progetto si articolava in tre fasi: una scuola materna, un’impresa di donne, la fondazione di un centro femminile. Progetto ambizioso che mirava a togliere i bambini dalle strade e impegnare le loro madri, sottraendo manovalanza insospettabile alla ‘Ndrangheta, che utilizza le donne per far recapitare messaggi o dare appoggio ai latitanti. Rosy Canale decise di partecipare e tornò in Calabria. Tuttavia, a parte la prima fase nella quale le istituzioni si impegnarono a sostenere l’iniziativa, il progetto si arenò e anche le donne che lavoravano sia nel centro femminile, sia nell’impresa che consisteva nell’apprendere un mestiere (vedi intervista a Manuela Zuccalà), abbandonarono il progetto per mancanza di fondi. In pratica lavoravano gratis, senza alcun rimborso ed anzi, spesso contribuivano economicamente di tasca propria. Rosy dedicava tutte le sue giornate e le sue energie ma non fu sufficiente a scongiurare la chiusura delle iniziative a favore delle donne e dei bambini per mancanza di fondi. Tenta l’ultima carta e si rivolge alle autorità locali e alle istituzioni nazionali.
“Ho scritto a tutti, dal Presidente della Repubblica in giù. Tutti sanno quello che faccio e chi sono- ha detto- ma nessuno mi rispose. Chiedevo solo 30mila euro per non far morire il progetto”. I fondi non arrivano e il progetto fallisce definitivamente nell’indifferenza delle istituzioni. Ma Rosy Canale, guerriera senza paura, proprio da quella sconfitta, da quel fallimento, ne trae un’occasione per rilanciare la sua battaglia contro la ‘Ndrangheta. Decide di scrivere la sua storia in un libro. Ma la notizia arriva alle cosche e, dopo un summit, decidono di intervenire e bloccare il progetto per paura che quella ragazza potesse denunciare all’opinione pubblica le nefandezze dei boss.
“Alcuni uomini lo scorso febbraio si sono recati a casa dei miei genitori a Roma, spacciandosi per postini. Appena mia madre apre la porta la spingono dentro minacciandola che se avessi pubblicato il mio libro, mi avrebbero tagliato a pezzi e dato da mangiare ai maiali. Avevano paura, perché un libro crea consapevolezza. E rimane”. Ma le minacce non hanno alcun effetto “perché- ci dice Rosy- non sono il tipo di persona che chiude la bocca per paura”. Leggere La mia ‘Ndrangheta, è vero, crea consapevolezza e anche speranza che le cose possano cambiare, veramente.
>>> L'intervista a Rosy Canale
>>> L'ntervista a Emanuela Zuccalà