di Fabrizio de Jorio
Una giornalista e un’imprenditrice si incontrano e scrivono un libro. Come è nata l’idea, il progetto del libro La Mia ‘ndrangheta, scritto con Rosy Canale?
Avevo intervistato Rosy per Io Donna e siamo rimaste in contatto. Poi lo scorso anno a giugno ho vinto il premio “Giornalisti del Mediterraneo” proprio con quell’articolo. L’ho chiamata per comunicarglielo, mi ha detto che stava tornando a San Luca e ho voluto andare con lei. San Luca, un paesino della Locride, in provincia di Reggio Calabria, è considerato l’ombelico della ‘ndrangheta: la culla delle cosche storiche che da questo recesso dell’Aspromonte hanno conquistato il traffico mondiale degli stupefacenti. Sono andata diverse volte con Rosy a San Luca, e anche al Santuario della Madonna di Polsi, tristemente nota come la Madonna della ‘ndrangheta, perché qui si sono svolti vari summit mafiosi. Quando c’è l’incontro tra una persona che ha una storia intensa, bellissima, che ha mostrato grande coraggio e determinazione nel contrastare la criminalità, è quasi naturale che un progetto come questo prenda vita. Ci siamo piaciute come persone e, lentamente, il libro ha preso forma. In quel periodo Rosy ritornava a San Luca per rimettere in piedi l’esperienza di volontariato con le donne mentre io pensavo di scrivere qualche reportage a 5 anni dalla strage di Duisburg. Ma durante i miei soggiorni in Calabria abbiamo raccolto così tanto materiale interessante che l’idea di strutturarlo al meglio dentro un libro a un certo punto e’ nata spontaneamente in entrambe.
La vicenda di Rosy è molto toccante: leggendo il libro si percepisce tutto il dolore, la sofferenza, il travaglio di una ragazza che per la prima volta si imbatte nella violenza della mafia.
E’ una storia vera nella quale, come spesso accade, la realtà supera la fantasia. Potrebbe essere la trama di un film. Rosy è stata vittima della ‘ndrangheta perché era un’imprenditrice che negli anni ’90 aveva aperto a Reggio Calabria un locale molto frequentato, in stile newyorchese. Ad un certo punto la ‘ndrangheta, visto che il locale andava benissimo, decise di farne una piazza di spaccio. Rosy si è opposta, ha subito intimidazioni e minacce per oltre un anno, finché una sera le hanno puntato una pistole in faccia. Lei ha reagito e i sicari delle ‘ndrangheta l’hanno picchiata fino a ridurla in fin di vita a bastonate. Lei e’ viva per miracolo. Tanto che ora si è dovuta trasferire in America, la ‘ndrangheta le ha distrutto la vita. Le minacce sono continuate anche durante la lavorazione del libro: la nostra interpretazione e’ che certi personaggi pensino che le nostre pagine contengano rivelazioni scottanti, quando invece il lavoro di inchiesta giornalistica, seppure molto approfondito e centrale nel libro, ha valore soprattutto perché rimette a posto le cronache, i nomi, i dati, la faida di San Luca. Fornendo una mappatura chiara della storia della ‘ndrangheta reggina e di San Luca degli ultimi trent’anni.
La storia raccontata nel libro parla di San Luca, il paesino dal quale venivano tre delle sei vittime e anche i presunti sicari della strage di Duisburg in Germania Dopo essere stata ridotta in fin di vita, Rosy fugge dalla Calabria e va a vivere a Roma, pur non essendo in grado di recidere del tutto il legame viscerale che ha con la sua terra. Nel giorno di Ferragosto del 2007, la strage di Duisburg la schiaffeggia dalle immagini televisive: è il primo grande show planetario della ‘ndrangheta, il fatto di cronaca che ha svelato quanto la ‘ndrangheta non sia un fenomeno criminale circoscritto all’Italia, bensì una holding criminale internazionale, potente, molto più ricca e ramificata di mafia e camorra. Questo evento ha riacceso in Rosy il desiderio di fare qualcosa per la sua gente. Sono tante le pagine del libro dove tentiamo di spiegare questo difficile e profondissimo passaggio. Quando appunto Rosy decide di partire per San Luca, dove non conosce nessuno: “Nello stesso momento in cui ho pensato che la mia vita non potesse finire lì, nell’impotenza che mi paralizzava da oltre tre anni, ho setacciato dentro me stessa in cerca di un’ispirazione per plasmare la mia rabbia in altre forme. E sublimare il mio istinto di vendetta in una forza capace di trasformare il male”. Quando racconta alle donne di San Luca, con le quali fonda un’associazione di volontariato, il dolore che ha subito: “Credevo in quel progetto, che per me aveva un profondo valore sociale ma anche un risvolto intimo, terapeutico: redimere loro per redimere me stessa. Estirpare il seme infetto conficcato nel mio cuore tentando di operare chirurgicamente sul loro male, come in un’azione a specchio riflesso”. E quando finalmente realizza perche’ stia rinascendo proprio a San Luca, la culla della ‘ndrangheta: “L’unica cura ai mali che mi avevano afflitta passava per il dono di me stessa a una Calabria dannata, che rifiutavo di sentenziare come perduta per sempre”.
Si è parlato molto del Movimento Donne di San Luca e della Locride.
Si’, anche su testate straniere, compreso il britannico The Guardian e l’americano Los Angeles Times. Forse perché Rosy Canale è stata la prima, a San Luca, a farsi assegnare un bene confiscato alla ‘ndrangheta, la villa che era appartenuta allo storico boss Antonio Pelle detto ‘Ntoni Gambazza. Lei l’ha trasformata in una ludoteca per i bambini, che qui non hanno mai avuto nulla del genere. Le donne sono anche state avviate a corsi professionali di sartoria per poter offrire loro opportunità di occupazione, in luoghi dove la mancanza di lavoro è uno dei tantissimi mali sociali.
Questo è durato per un periodo di tempo, poi le attività pian piano si sono esaurite e l’immobile ora versa in pessime condizioni.
Rosy è rimasta sola, non è più stata sostenuta dalle istituzioni e a un certo punto i finanziamenti, si sono esauriti. L’esperienza del Movimento Donne si è formalmente conclusa, ma noi nel libro lasciamo un finale sospeso, bifronte, che qualcuno potrebbe raccogliere e dirigere in una certa direzione. Magari risvegliando un’esperienza che aveva interessanti potenzialità, in un territorio ad altissima penetrazione mafiosa.
Le mafie, come avete scritto nel libro, si nutrono di un retroterra di connivenze e omertà e il tema delle donne è molto sentito da Rosy, proprio perché vuole strapparle dalla violenza e dalla complicità con la ‘ndrangheta…
Nel libro cerchiamo di mettere in luce come in certi luoghi i confini tra il bene e il male, tra giusto e ingiusto, tra buoni e cattivi, sono indefiniti. E’ vero che la ‘ndrangheta in Calabria, così come la mafia in Sicilia, la mia terra, si nutre di omertà e connivenza, ma anche di disoccupazione, di sottosviluppo economico e sociale. Non voglio fare la banalissima - e, a mio avviso, rischiosissima - equazione secondo cui disoccupazione e sottosviluppo significhino necessariamente criminalità: noi cerchiamo proprio di andare oltre i luoghi comuni raccontando in profondità’ un mondo, una mentalità particolare, i sentimenti delle sorelle, delle mogli, delle figlie dei mafiosi che dentro di loro ripudiano fortemente quel mondo, quella violenza, quella mentalità arcaica e maschilista. Ma che, al contempo, non possono e non vogliono ripudiare i loro fratelli, mariti e padri. Cerchiamo di narrare anche quella popolazione onesta, seppure timorosa di svelarsi, ma che se opportunamente stimolata potrebbe contribuire a cambiare i destini. Le donne-madri sono le protagoniste perché educano i figli, trasmettono i valori. La donna ha il potere di far comprendere che ci sono altri orizzonti, altre prospettive al di là della violenza e dell’illegalità. Nel libro, due interi capitoli sono dedicati a due donne di San Luca, madri di due vittime di Duisburg: Teresa Strangio, la madre che si presenta vestita di bianco ai funerali del figlio diciassettenne e, invece di invocare di vendetta per il suo sangue, grida il suo perdono per gli assassini. E Antonia Marmo, che sta spendendo la sua vita a riabilitare la memoria del figlio infangata dai giornali.
Durante questo vostro viaggio alla ricerca delle matrici culturali che nutrono la ‘ndrangheta, che ruolo hanno avuto le istituzioni, i politici?
Le istituzioni sono fatte di persone, quindi a secondo di chi trovi in quel momento, puoi avere disponibilità o chiusura. Nell’esperienza di Rosy, almeno nella fase iniziale, la Prefettura di Reggio Calabria ha anche erogato un finanziamento per le attività di volontariato, così come il Comune. Ma in seguito le istituzioni sono state assenti, poco collaborative, anche perché il controllo della ‘ndrangheta in Calabria è veramente capillare. Basta pensare che il comune di Reggio è il primo caso in Italia di capoluogo di provincia commissariato per infiltrazione mafiosa, ed e’ notizia di qualche giorno fa. C’è anche il recente arresto dell’assessore regionale della Lombardia, Zambetti, accusato di aver pagato le ‘ndrine calabresi in cambio di voti. Tra le persone che hanno aiutato Rosy posso citare il viceprefetto Giuseppe Priolo, ex commissario prefettizio a San Luca, che dal 2000 al 2003 aveva messo in atto un’operazione quasi paradossale, e ne parliamo nel libro: i commissari dello Stato che dialogavano con i cittadini, riuscendo a far loro comprendere che la legge è uguale per tutti.
Come definiresti il vostro libro?
“La mia ‘ndrangheta” è tutt’altro rispetto al filone di Gomorra, di Fratelli di sangue, di Le mani sulla città. Certo, la parte giornalistica e’ molto presente: da’ un inquadramento di contesto alla storia individuale di Rosy e permette al lettore non solo di emozionarsi, di piangere e ridere, ma anche di informarsi sui principali eventi di ‘ndrangheta nel Reggino e nella Locride degli ultimi trent’anni. Ma alla fine si tratta di un libro di speranza per una terra fortemente martoriata dalla criminalità. Rosy Canale rappresenta il volto onesto dei calabresi, delle donne e degli uomini che lavorano duramente per non dover scendere a compromessi con il crimine e che spesso, come lei e tanti altri, si ritrovano a pagare prezzi altissimi per questo.“Se la mia terra era senza speranza” dice a un certo punto Rosy, identificandosi con la sua Calabria, “significava oltre ogni confutazione che lo ero anch’io. E questo non poteva essere”.