Il XVIII Congresso del PCC


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Il Partito-Stato sceglie i suoi 'principi rossi'

Per Xi Jinping un'eredità difficile da gestire: la politica non ha saputo tenere il passo dell'economia c

di Rodolfo Fellini
(r.fellini@rai.it)

Per la diciottesima volta nella sua storia, il Partito comunista cinese (PCC) si riunisce a Pechino per definire il futuro di quella che, tra non molto, appare destinata a diventare la prima potenza economica del mondo. Il Congresso si svolge ogni 5 anni ed è il massimo organismo del partito unico, che detiene il potere dal 1949. Con i suoi 79 milioni di affiliati, il PCC è il motore dello Stato cinese, interprete e avanguardia di quella “dittatura del popolo” sancita dall’articolo 1 della Costituzione. Dall’assise, che durerà circa una settimana, emergeranno i nuovi leader del partito, destinati a guidare il Paese per i prossimi dieci anni, e i cosiddetti “delfini”, che con ogni probabilità succederanno loro per il decennio successivo. A Pechino, insomma, nasce quella che sulla carta sarà la nomenklatura cinese da qui al 2032.

L’inizio del Congresso, che di solito si tiene a ottobre, è stato fissato questa volta per l’8 novembre: una scelta strategica, poiché il mondo avrà appena scoperto chi, tra Barack Obama e Mitt Romney, sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti, unici antagonisti della Cina. Nella Grande Sala del Popolo di Pechino confluiranno 2.270 delegati provenienti da tutto il Paese, i quali daranno vita a un confronto più che altro simbolico. E’ infatti prassi consolidata che le decisioni siano già state prese prima dell’assise, e che quest’ultima si limiti a legittimarle con il voto. La posta in palio è altissima: cooptando al suo interno i protagonisti della “quinta generazione” di dirigenti, il PCC metterà alla prova la sua capacità di rinnovarsi per continuare a detenere saldamente il potere.

I futuri “principi rossi”
L’attuale vice presidente, che è anche capo della scuola centrale del Partito e ha coordinato l’apparato organizzativo delle Olimpiadi di Pechino-2008, il 59enne Xi Jinping, arriva al Congresso indossando i panni del predestinato. Salvo improbabili colpi di scena, succederà a Hu Jintao alla testa del partito e della Repubblica popolare, poiché è stato ritenuto l’unico capace di non scontentare nessuna delle varie lobby interne al Partito. L’attuale vice premier Li Keqiang, dato in un primo momento per favorito, appare invece destinato a sostituire Wen Jiabao alla guida del governo. L’investitura di Xi Jinping è stata preceduta, a settembre, da una sua improvvisa scomparsa di scena, i cui contorni sono tuttora avvolti dal mistero. Il numero due di Hu avrebbe dovuto incontrare il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, in visita a Pechino, ma all’ultimo minuto decise di annullare il colloquio. Gli organi di stampa parlarono di tensioni per le “ingerenze americane nelle questioni regionali” ma poi, essendo stati annullati tutti gli altri incontri in agenda, diedero voce alle ipotesi più disparate: mal di schiena, attacco cardiaco e persino di un complotto ad opera delle frange maoiste dell’esercito. Il futuro presidente è poi riapparso, dopo quindici giorni, senza giustificare la sua assenza, né il Partito o il governo hanno ritenuto di dover dare spiegazioni.

Il tandem Xi-Li dovrebbe proseguire lungo la strada delle riforme economiche, avviata da Jiang Zemin e consolidata da Hu Jintao. Da almeno un ventennio, la Cina si barcamena tra il tradizionale collettivismo di stampo maoista, sempre meno presente, e quel liberismo all’occidentale che tanto ha giovato alla sua economia. Per gestire il cambiamento, la dirigenza ha messo a punto una formula autoritaristica, in cui è lo Stato a giocare con le regole del capitalismo. Sulla carta, il modello di riferimento resta sempre quello socialista, benché la robusta crescita economica degli ultimi decenni e l’interazione con il resto del mondo abbia lasciato ampi spazi a un liberismo sempre più sfrenato.

Tornare al popolo rinnegando la propria storia
I nuovi “principi rossi” del regime sono chiamati a soffocare sul nascere tensioni sociali che rischiano di mettere a repentaglio l’impianto del potere. Dovranno trovare un equilibrio tra le crescenti richieste di benessere e democrazia, espresse da una parte sempre più ampia della popolazione, e le resistenze dei gruppi di potere cui essi stessi appartengono. L’obiettivo sarà lo stesso perorato da Hu e Wen: costruire una società che armonizzi e disciplini le disuguaglianze tra città e campagna, tra impresa e stato sociale. In questo quadro, restano però poche tracce di comunismo. Particolarmente significativa appare l’omissione, contenuta nella bozza del manifesto politico varato dal Politburo, da cui dovrebbe sparire ogni riferimento al marxismo-leninismo e a Mao Zedong. La Rivoluzione culturale e l’idea di Stato collettivista preconizzati dal “Grande timoniere” sembrano definitivamente sconfessati, e l’opera condotta in tempi più recenti da Jiang e Hu è ormai l’unico punto di riferimento del Partito presente e futuro. Il mito di Mao resta comunque vivo tra le classi popolari, e persino all’interno del PCC non mancano le frizioni, come dimostra la recente epurazione di Bo Xilai. L’ex ministro e sindaco di Chongqing, astro nascente dell’ala neo-maoista del Partito, si è permesso di criticare un sistema “che ha perso i suoi ideali”, e ha proposto il ritorno a una nuova Rivoluzione culturale. Accusato di corruzione e abuso di potere, è stato immediatamente espulso dal Partito, mentre sua moglie veniva ritenuta mandante dell’omicidio di un uomo d’affari britannico e condannata all’ergastolo. Alla vigilia del Congresso, e in attesa del processo a Bo Xilai, trecento personalità, tra esponenti della vecchia guardia comunista e giovani delusi dal nuovo corso, hanno chiesto in una lettera aperta ai vertici del PCC che Bo possa conservare il suo seggio in Parlamento e difendersi dalle accuse tutelato dall’ombrello dell’immunità.

Se il regime cinese ha crescenti difficoltà a mantenere il proprio potere, deve solo biasimare se stesso. La politica non ha saputo tenere il passo dell’economia, e si trova ora ad inseguire quelle riforme politiche che in questi vent’anni non ha avuto il coraggio (o la volontà) di fare. Nella civiltà di internet, l’equazione isolamento dei cittadini più opacità delle scelte politiche non appare più sostenibile. Una sia pur timida apertura verso uno Stato di diritto si è resa improcrastinabile. Il Congresso del PCC preannuncia perciò un allentamento della censura, meno controlli su internet e più libertà di parola. I fatti, tuttavia, dimostrano che la strada fin qui intrapresa va nella direzione opposta. L’epurazione di Bo, la condanna a 11 anni di carcere del dissidente e Nobel per la pace Liu Xiaobo per “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”, l’arresto dell’artista e difensore dei diritti umani Ai Weiwei, la repressione in Tibet e Xinjiang, le minacce a Taiwan, il risveglio delle tensioni con i Paesi vicini per rivendicazioni territoriali che a lungo erano rimaste sopite, il ritorno alla propaganda patriottica, la massiccia presenza di polizia ed esercito nella vita quotidiana dei cinesi, le continue violazioni dei diritti umani indicano che la democrazia non è un tema all’ordine del giorno.

Le inquietudini dei cinesi
La Cina detiene il primato mondiale delle esecuzioni capitali, non quantificabili in quanto i dati sono segretati, ma stimate in diverse migliaia. Sono decine i reati per i quali un cinese può finire sul patibolo: dallo stupro al contrabbando, dalla frode alla rapina, dall’incendio doloso all’evasione fiscale. Il rapporto 2012 di Amnesty International sottolinea come nell’ultimo anno, “temendo l’insorgere di movimenti di protesta ispirati dagli eventi del Medio Oriente e Africa del Nord, le autorità hanno dato il via libera a una delle più dure repressioni nei confronti di attivisti politici, difensori dei diritti umani e attivisti online dall’epoca delle manifestazioni di piazza Tiananmen del 1989”. Nel timore che le "Primavere arabe" possano contagiare l'Est dell'Asia, il regime ha poi inasprito negli ultimi due anni la già forte repressione nelle zone considerate a rischio, abitate prevalentemente da minoranze etniche o religiose.

Nel bilancio del “decennio d’oro” di Hu e Wen, resta tuttavia un quadro di diffuso progresso economico, una ricchezza che si è estesa a gran parte della popolazione, sia pur in maniera disuguale. Il 70% dei cinesi, rivela un’inchiesta condotta dal Pew Research Center, si dichiara più ricco rispetto a cinque anni fa, ma l’81% ritiene che “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Tra i problemi che affliggono un numero crescente di cinesi, spiccano la sicurezza alimentare (41% degli intervistati) e la corruzione dell’apparato statale (50%). Non a caso, alla vigilia del Congresso, il Comitato centrale ha aperto un’inchiesta sulla presunta fortuna accumulata dalla famiglia di Wen Jiabao. E’ stato lo stesso premier, chiamato in causa da un articolo del “New York Times”, a chiedere l’apertura di un procedimento, dichiarandosi certo che sarà scagionato da ogni sospetto. “Benché avvertano un miglioramento, i cinesi sono sempre più insoddisfatti per la mancanza di soluzioni ai problemi nazionali, e molte delle loro paure hanno a che vedere con i concetti di giustizia ed equità”, sostiene il rapporto. Cresce anche l’inquietudine per l’insufficiente tutela dell’ambiente e per un sistema di protezione sociale non all’altezza dei progressi economici compiuti. Tutti problemi con cui la nuova dirigenza dovrà prima o poi fare i conti. Serve lungimiranza.