Musica - i consigli della settimana


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Angeli folk e diavoli rock

Nuovi cd per Mumford & Sons e Rickie lee Jones

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)

Mumford & sons
Babel (Island records)

Vendere in America 2,4 milioni di copie di un album di folk inglese (“Sigh no more”) non è cosa da tutti i giorni. Eppure Mumford & sons, quattro sbarbatelli di West London, ci sono riusciti senza sforzo apparente. Forse il fatto che mister Bob Dylan li abbia voluti sul palco con sé ai Grammy del 2011 per accompagnarlo in “Maggie’s Farm” li ha aiutati, ma fino ad un certo punto. Dylan non ti convoca se sei qualcuno e non vali niente, ma può convocarti se non sei nessuno e vali molto. Un altro aiutino è arrivato sicuramente dall’ondata di folk revival che sta attraversando in questo periodo generazioni e continenti. Per il resto, è tutta sostanza, e “Babel”, secondo album del quartetto, ne è la prova provata. D’altronde, dopo anni di house, rap, metallo pesante, elettronica, drum machine e solo Dio sa cos’altro, la gente ha bisogno di riposare i timpani. Ergo, si torna alle canzoni, anzi alla forma-canzone, e agli strumenti acustici, banjo compreso. E al diavolo anche la batteria. Non c’è elettricità in “Babel”, ma la musica è carica di elettricità. Folk, dicevamo, come quello dei Pogues, ad esempio, come lo Springsteen delle “Seeger session”, con retaggi evidenti ereditati da Johnny Cash, ma con tentazioni neo-punk alla Clash (per l’impatto sonoro dal vivo), o reminiscenze irlandesi, nel senso di U2. “Lover in the light”, ascoltata ad occhi chiusi, fa venire alla mente il Bono dei bei tempi andati. Facile, a questo punto, conquistare il pubblico di cinque continenti. Non foss’altro perché i quattro menestrelli hanno battuto il lungo e in largo il pianeta per due anni, suonando anche nelle parrocchie, e scrivendo le canzoni di “Babel” fra un concerto e l’altro, con una discontinuità eccessiva. Tant’è che alla fin fine si sono ritirati nello studio di registrazione di Ray Davies (Kinks) per omogeneizzare l’enorme mole di materiale prodotto in giro per il mondo. “Babel” è uno dei migliori dischi dell’anno: pieno di energia, di fantasia, di evocazioni, di urli generazionali, di stop and go, di ottimismo, nonostante “Hopeless Wanderer” (vagabondo senza speranza) sia l’anthem disperato contro l’insensibilità umana. Un vero e proprio album di “combat-folk”. Nella versione deluxe c’è una splendida cover di “The Boxer” di Simon & Garfunkel, con lo stesso Paul Simon aggregato alla band.

Rickie Lee Jones
The devil you know (Universal)

La duchessa di Coolsville torna con un nuovo album a distanza di tre anni dal precedente, ma la lontananza dalle scene non ha contribuito a farle smussare gli spigoli vivi del suo approccio canoro, che in ”The devil you know” ripropone più taglienti che mai. I più attempati la ricorderanno compagna di vita di Tom Waits, suo alter-ego al femminile, e musa cantautorale negli anni ’80, quando la California era un punto di riferimento sonoro per l’intero pianeta. Poi una lenta discesa nell’oblio, probabilmente anche all’inferno, visto il titolo del nuovo album, “Il diavolo che conosci”. Non è un caso che questo disco di cover si apra con una spiazzante “Sympathy for the devil” degli Stones completamente trasfigurata, spettrale, totalmente irriconoscibile. Ci vuole coraggio ad affrontare l’ingeneroso pubblico della contemporaneità armati solo di voce, chitarra e piano. E anche se alla produzione c’è un signore che si chiama Ben Harper, questo lavoro necessita di stomaco forte e concentrazione francescana. Prendiamo ad esempio “The weight”, capolavoro della Band, interpretata alla Tom Waits, voce cavernosa post-Bourbon. O “Only love can break your heart”, by Neil Young, tirata giù con un filo di voce, quasi ad offenderla. O, ancora, il vecchio traditional blues “St. James Infirmary” (andate a risentirvi la versione straordinaria di Marva Wright) , anch’esso sussurrato come se fosse il momento di tirare le cuoia. Sarà un miracolo se questo album venderà qualche migliaio di copie in tutto il mondo, sembra fatto apposta per finire in cantina. Eppure, a ben guardare, questa totale sottrazione di rumori, suoni, arrangiamenti (Ben Harper di fatto si limita a guardare e basta) mette a nudo le canzoni, ne vivifica l’essenza, fa riaffiorare il dolore e la sofferenza di chi canta e di chi ascolta. “The devil you know” è un disco per anime perse. Per chi l’anima c’è l’ha ancora attaccata è una boccata d’ossigeno. Nel senso di sbadiglio.