di Rita Piccolini
(r.piccolini@rai.it)
In un piccolo libro: ”Donne ai vertici nelle aziende”, un “Instant Book” del Corriere della Sera da qualche giorno nelle edicole, tutte le informazioni su ”Che cosa prevede la nuova legge sulle quote di genere. Opportunità, regole, corsi per prepararsi”.
Scritto dalla giornalista Maria Silvia Sacchi il libro racconta la genesi e i contenuti della legge nota come “Golfo-Mosca”, dal nome delle due parlamentari (la prima del Pdl, la seconda del Pd) che l’hanno proposta. La legge, pur essendo stata approvata nel luglio dello scorso anno, è diventata vincolante a partire dal 12 agosto2012. Forse per questo è in qualche modo passata sotto silenzio. Nel cuore dell’estate infatti non si è dato molto peso a questa mini-rivoluzione che produrrà gli effetti più evidenti nel corso del 2013, quando via via verranno a scadenza e dovranno essere rinnovati i consigli di amministrazione e i collegi sindacali delle società quotate in Borsa ( 300), e quelli delle società controllate dallo Stato (2.100) , che salgono a 7.000 se si considerano anche le partecipate. La legge riguarda quindi un gran numero di imprese, ma soprattutto riguarda tutti noi e i mutamenti in una società “evoluta” in cui non è più rinviabile l’esigenza di aiutare le donne a occupare sempre più posti di responsabilità proprio nei luoghi dove si prendono le decisioni.
Perché è di donne che si sta parlando e delle quote previste dalla legge .Sono definite genericamente “quote rosa”, perché sostanzialmente ad essere discriminate nella carriera sono soprattutto le donne, ma in realtà sono previste per tutte le “minoranze” che per un motivo o per l’altro non siano messe nelle condizioni di godere di pari opportunità nel mondo del lavoro e delle istituzioni. Sono uno strumento per abbattere la barriera invisibile che impedisce il dovuto riconoscimento in ambito professionale, per infrangere il “soffitto di cristallo” che blocca la crescita al femminile e rende imprescindibile l’esigenza di accelerare una riflessione culturale sui modelli organizzativi aziendali, oggi troppo maschili.
Quote come strumento per superare un divario che la ragionevolezze e il buon senso non bastano a colmare. Sono di qualche giorno fa i dati dell’Eurispes che descrivono il nostro Paese come una vera e propria “gerontocrazia”, prevalentemente composta da uomini che lasciano poco spazio alle donne, ai giovani e alla conciliazione della professione con la vita privata. Dalla fotografia della classe dirigente italiana, scattata dall’Eurispes in collaborazione con Who’s Who in Italy, emerge che gli uomini rappresentano l’85% di quelli “che contano”, a fronte di un contenuto 15% di donne. I “professionisti del potere” sono politici, manager, dirigenti di aziende pubbliche, docenti universitari, giornalisti, attori, il 79,5% dei quali ha superato i cinquanta anni, il 39,3% ne ha più di 65. Oltre la metà di essi non è sposato e non ha figli. Tra le donne della classe dirigente solo un terzo è coniugata. Più della metà del campione d’indagine non ha figli. E’ la conferma di ciò che si percepisce con evidenza nella vita sociale. Nonostante le donne studino molto e con risultati migliori dei quelli maschili, dato ormai assodato senza ombra di dubbio, il conseguente raggiungimento di alti livelli di responsabilità nel mondo del lavoro e delle istituzioni è ben lungi dall’essere raggiunto.
Ma cosa prevede la legge? E perché è “a tempo”?
“La legge prevede che nei consigli di amministrazione (comunemente indicati anche con il termine board, all’inglese) e nei collegi sindacali, il genere meno rappresentato abbia almeno un quinto degli amministratori e dei sindaci al primo rinnovo degli organi societari e, a partire dal secondo rinnovo, ne abbiano almeno un terzo”. Per chi non si adegua sono previste sanzioni che vanno dalla diffida, alla multa, fino alla decadenza dell’intero organo societario.
La legge sulle quote di genere non è definitiva, ma temporanea: si applica infatti per tre mandati dell’organo societario, si calcola in media nove anni. “E’ una legge temporanea perché mira a operare una forzatura in un sistema bloccato, per creare una discontinuità culturale - spiega Alessia Mosca, la parlamentare che insieme a Lella Golfo dà nome alla legge, e aggiunge - i cambiamenti di questo tipo impiegano circa un decennio per essere assimilati. Tre mandati sono esattamente nove anni, il tempo che crediamo sia sufficiente perché diventi ‘normale’che il potere sia anche femminile”. Speriamo che sia vero che ciò che dovrebbe essere “normale” sia percepito come tale in pochi anni e che non sia poi più necessaria una legge per sancire un diritto “ovvio”. Proprio perché è ovvio che le donne abbiano le stesse occasioni e opportunità degli uomini, senza imposizioni legislative a dare la sensazione di essere “una specie protetta”, che l’idea delle quote suscita perplessità anche tra molte donne. L’idea di una legge ad hoc ha fatto fatica a passare anche tra autorevoli esponenti del mondo politico e imprenditoriale che pure sanno per certo e per esperienza personale quanto sia difficile arrivare ai vertici di un’impresa, se si è donna, malgrado si possiedano tutti i requisiti professionali. Per questo si è scelta la “temporaneità”, per dare una “spallata” a un sistema che se non sollecitato si evolverebbe troppo lentamente.” La speranza e l’auspicio è che, rotto il muro, il riequilibrio tra i generi possa poi proseguire da solo”, scrive l’autrice. Nonostante le molte perplessità diverse associazioni femminili hanno sostenuto la necessità del provvedimento, in particolare Aidda, Federmanager Gruppo Minerva, Fondazione Bellisario, ManagerItalia, Progetto Donne e Futuro, Pwa e Valore D.
Prima dell’approvazione alcuni partecipanti al dibattito, uomini, avevano eccepito la costituzionalità al provvedimento che,secondo loro, avrebbe finto per forzare gli azionisti a decidere condizionati dalle quote,di fatto limitandone la libertà di scelta. Alla legge tuttavia è stato dato parere di costituzionalità poiché lo si è compreso tra le azioni positive, cioè le azioni che mirano a rimuovere le disparità, secondo il diritto comunitario. Come si legge infatti nella relazione accompagnatoria al testo, la legge si pone come strumento di riequilibrio di una sostanziale disparità di genere, per questo “può essere adottata come misura sperimentale a carattere temporaneo, in quanto derogatoria del generale principio di formale parità di trattamento stabilito nell’art. 3 della Costituzione”. Tutti questi elementi spiegano il perché della temporaneità del provvedimento.
Ma qual è la situazione da cui si parte? Secondo le elaborazioni della Consob, a fine agosto 2012 le donne presenti nei consigli di amministrazione delle società quotate hanno superato la soglia del 10% e metà di esse ha ancora consigli di amministrazione interamente maschili. Nei Cda delle società a controllo pubblico la presenza femminile si ferma al 4%. E negli altri Paesi europei? Secondo la European Board Diversity Analysis 2012 di Egon Zehnder International, nelle società quotate in Borsa le donne nei Cda sono il 36,4% in Norvegia, il 27% in Finlandia, il 20,5% in Francia (in questi paesi sono previste le quote); il 24,6% in Svezia e il 18,2% nel Regno Unito (paesi senza quote).
Quote in qualche modo “offensive” per le donne viste come “specie da proteggere”, o strumento indispensabile in un sistema che continua a pensare ai vertici della società soprattutto uomini di mezza età? Il dibattito è aperto. Intanto in molti hanno sottolineato che escludere dai luoghi decisionali la metà della popolazione italiana significa togliere opportunità non solo e non tanto alle stesse donne, ma all’intero Paese. Piace ricordare che Mario Draghi, oggi al vertice della Banca Centrale Europea, abbia più volte sottolineato quanto sia necessario utilizzare tutte le risorse disponibili, e tra queste naturalmente quelle femminili, le cui capacità e il cui talento sono più che mai preziose contro la crisi economica e finanziaria mondiale.