di Emanuela Gialli
(e.gialli@rai.it)L’esito delle elezioni americane è stato seguito con apprensione anche dagli astronauti americani. Tra l’altro, quelli a bordo della Stazione spaziale internazionale hanno potuto e voluto esprimere il loro voto pur trovandosi a 500 km circa dalla Terra. Come mai questa attenzione? Forse perché un nuovo presidente avrebbe cambiato la politica dello Spazio degli Stati Uniti?
Io non credo che fra i due candidati ci fosse, riguardo allo Spazio, una grandissima differenza. Certo, Romney, tutto teso ai tagli, sarebbe stato più drastico verso la Nasa di quanto non lo possa essere Obama. Ma anche Obama si trova in una situazione assai imbarazzante perché ha un deficit enorme nel Paese, con una scadenza importante, quella di dicembre, quando Obama dovrà cominciare a presentare i conti di una politica di tagli all’amministrazione pubblica. Quindi io ritengo che anche lui si muoverà per ridurre le spese della Nasa. E comunque Obama già nel suo primo quadriennio aveva preso una serie di decisioni che andavano nella direzione di ridurre in qualche modo l’impegno diretto dello Stato verso le spese per le missioni spaziali. Ad esempio, Obama ha inaugurato la politica della privatizzazione dei voli verso la Stazione spaziale. Praticamente tutta l’attività relativa a rifornire la Iss è stata lasciata da Obama ad aziende private. E’ recente infatti il lancio della navicella Dragon che una società privata ha fatto agganciare alla Iss. Poi tutti i collegamenti Terra-Iss Obama nei quattro anni passati, e credo i quattro anni futuri rafforzeranno questa sua tendenza, li ha attribuiti a società private, proprio per ridurre le spese. Ci sono stati anche tagli del personale.
C’è una nota di positività per lo sviluppo della politica dello Spazio da parte degli Stati Uniti con la rielezione di Obama? Perché il rieletto presidente sembra si sia posto un traguardo piuttosto ambizioso: quello di portare l’uomo su Marte
Infatti. Proprio per alleggerirsi dall’impegno della Iss, dei voli bassi, credo debba andare in questa direzione. Però guardi che siamo lontanissimi dal traguardo. C’è anche da dire che ci arrivano teorie contrastanti: da una parte quelli che dicono che un volo verso Marte, come anche una permanenza sul Pianeta, sia possibile e altri che invece questa possibilità la escludono, proprio per le caratteristiche di Marte. Aspetti però, il problema tecnico-scientifico in realtà non si porrebbe. Perché il traguardo è per il 2030. La scienza e la tecnologia statunitensi sarebbero in grado di rispettare questo appuntamento. Il problema che si pone è quello dei finanziamenti, dei soldi. Un po’ come quello che è accaduto con Kennedy e la Luna. Cioè, una questione politica molto forte da risolvere con danaro da far convergere su questo settore. E allora, c’è questa volontà degli Stati Uniti di andare su Marte? A parole si può dire che accadrà nel 2030. Ma poi ci sono fatti precisi che poi sono riconducibili tutti a fette di budget dello Stato.
Ma lei, professor Canali, che significato attribuisce a questo obiettivo che si è posto Obama per gli Stati Uniti?
A dire il vero, per primo ne aveva parlato Bush.
Scusi, ma mi sembra che Bush avesse parlato di un ritorno dell’uomo sulla Luna
Sì però aveva accennato anche a Marte. In genere si prendono comunque sempre poco sul serio obbiettivi a così lunga scadenza, che hanno per lo più una valenza politica. Voglio dire che il problema vero non è tanto la realizzabilità di questo progetto, quanto la volontà politica e la capacità finanziaria di realizzarlo.
D’altronde, però, se pensiamo al contesto nel quale è maturata la missione dell’uomo sulla Luna, come lei stesso ci ha spiegato su queste colonne, cioè all’antagonismo tra Russia e Usa sulla Terra che stava venendo un po’ meno dal punto di vista militare e politico, nell’ambito della politica dei blocchi contrapposti e della Guerra fredda e di conseguenza la competizione si andava spostando, in quegli anni, nello Spazio, oggi quale primato potrebbe consentire agli Stati Uniti di recuperare una posizione di “guida” nel mondo?
Innanzitutto, il contesto è del tutto cambiato. Lo scenario mondiale è del tutto diverso. Sono crollati imperi, sono state ridimensionate grandi potenze. Diciamo che gli Stati Uniti stessi rischiano un declassamento sul piano “imperiale”, se vogliamo così definirlo. Oggi quello che spinge è un contesto in cui ci sono più Paesi che si affacciano sul campo della “gara spaziale”. Cina, Giappone e India, ad esempio, hanno tutti e tre dichiarato come loro obiettivo primario quello di mettere i piedi sulla Luna e la Cina parla anche di una Stazione orbitante messa in piedi, di cui non ci ha fatto però vedere nulla, neppure una foto, che ci sta sopra la testa. Questo sta a significare che c’è di nuovo una volontà da parte di alcune potenze, che erano prima di seconda fila, di riaffermarsi nello Spazio e che ora, superando la crisi, hanno indicato proprio lo Spazio come terreno di gara e competizione.
E gli Stati Uniti come si inseriscono in questo scenario?
Se è vero che gli Usa si trovano stretti nei problemi finanziari che conosciamo, è anche vero che non possono abbandonare il loro ruolo, pena un ridimensionamento drammatico. Obama dunque deve mantenere in piedi, perché pressato da vicino dalle altre potenze che ho prima citato, la corsa allo Spazio. E penso che nei progetti di Washington ci sia ancora la Luna, non tanto come terreno da essere colonizzato, quanto come punto di importanza strategica nei confronti della Terra. Se vogliamo fare un po’ di fantapolitica, chi controlla la Luna ha buone probabilità di essere presente in maniera molto pesante sulla Terra. E adesso azzardo un’ipotesi: la percezione che si riceve è che gli Stati Uniti, soprattutto Obama, in questo momento, che nella sua campagna l’ha fatto capire molto più di Romney, anzi a Romney si è contrapposto, proprio su questo terreno, stia dando un’importanza notevole al Pacifico, ai rapporti con Cina e Giappone. Mentre Romney vede questi rapporti conflittuali, Obama ha sempre fatto capire che con questi Paesi occorre discutere. Quindi, mentre la decisione di andare su Marte è di notevole impatto strategico, psicologico, un obiettivo simile a quello della Luna negli anni Sessanta, sul piano fattuale la mia sensazione è che gli interessi degli Usa e della Cina, in particolare, siano quelli di concertare una linea comune per andare sulla Luna.
Questo significherebbe che Obama non vuole affermare il primato degli Stati Uniti nello Spazio?
Adesso conviene a tutti il dialogo.
Economicamente, professor Canali?
Certo, anche alla Cina. L’impegno di andare sulla Luna, che costò una fetta importante del bilancio americano negli anni Sessanta, si ripropone anche oggi, con costi forse addirittura triplicati. E alla Cina, di fronte a una possibilità di collaborazione definita in modo chiaro, credo convenga usufruire di una tecnologia come quella americana che si è già misurata con certi problemi. Sarebbe una scorciatoia per la Cina, ispirata, certamente, da una mentalità da condominio.
Di ripartizione delle spese, praticamente...
Esatto.
Nello stesso tempo si risparmia e si hanno obiettivi ambiziosi
Certo. Azzardando dunque, ripeto, questa ipotesi, in base agli elementi di contatto e di dialogo con la Cina emersi nell’ultimo periodo, mi sembra su questo fronte si possa giocare una partita interessante, nel caso in cui le due potenze decidessero di concordare, di concertare uno sforzo comune che converrebbe a entrambe.
Sarebbe anche un avvertimento per le altre Nazioni che aspirano ad assumere un primato nello Spazio, secondo lei?
Certo. Ma credo che dal punto in cui sono, né Giappone, né India possano vedere questo traguardo dallo stesso punto di osservazione della Cina. Gli Stati Uniti sanno molto bene che attualmente il vero avversario spaziale è la Cina.
Ma se Stati Uniti e Cina dovessero arrivare a un accordo, come diceva lei, così pragmatico e operativo, a suo avviso la Russia starebbe a guardare?
Consideri che gli astronauti americani vanno sulla Stazione spaziale con mezzi russi (Soyuz, ndr). Io credo che questa concertazione poi alla fine tocchi anche altri Paesi. Ma qui ci stiamo muovendo sul terreno rischioso dell’astrattezza, perché non vi sono al momento elementi concreti che possano confermare questa linea di azione