I film del week end


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E la chiamano estate

di Sandro Calice

E LA CHIAMANO ESTATE

di Paolo Franchi, Italia 2012, drammatico (Officine Ubu)
Fotografia di Cesare Accetta, Enzo Carpineta.
con Isabella Ferrari, Jean-Marc Barr, Luca Argentero, Filippo Nigro, Eva Riccobono, Anita Kravos
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Un’operazione cerebrale, prima che artistica, questo film di Paolo Franchi (“La spettatrice”, “Nessuna qualità agli eroi”), che si schermisce rispetto alle critiche ricevute soprattutto al Festival del Film di Roma (dove comunque ha vinto il Premio per la regia e quello per la migliore attrice a Isabella Ferrari), dicendo che “l’arte è egoista e io non ho la pretesa di arrivare a tutti, ma di colpire qualcuno. Vorrei che in uno spettatore su cento almeno si creasse, come diceva Deschamps, un ‘rendez-vous’ con se stesso”.

“E la chiamano estate” è la storia di una coppia di quarantenni che si ama moltissimo ma non riesce ad avere rapporti sessuali, per colpa di lui, Dino, che solo in prostitute, anche vecchie o menomate, e coppie scambiste riesce a soddisfare, senza gioia, le sue pulsioni. Lei, Anna, resiste, perché in fondo la sofferenza di lui la fa sentire unica e insostituibile. Lui, sinceramente innamorato ma distrutto dai sensi di colpa e di inadeguatezza, inizia a precipitare in una disperazione che lo porta a cercare tutti gli ex di lei, per capire ma anche per chiedere loro di tornarci insieme. Andrà sempre peggio.

Il film si apre con una citazione del celebre quadro di Gustave Courbet “L’Origine du monde”, un sesso femminile in primo piano. E, simbolicamente, ci indirizza sulla parte interessante di questo film, una riflessione sul sesso e sui rapporti di coppia non banale, non ipocrita, da una prospettiva originale per un film italiano, di fronte alla quale reagire con sufficienza o peggio con un risolino isterico denoterebbe appunto ipocrita ignoranza. Poi però ci pare che i meriti si esauriscano quasi tutti qui. Si capisce che Franchi ha masticato molto buon cinema (Antonioni e dintorni), e si può anche capire che ricorra a Bergson per giustificare il montaggio della storia: ”Bisogna fare una considerazione trans-temporale di un rapporto di coppia, il tempo non viene concepito in maniera lineare, un po’ come in Bergson. Reiterare una scena dunque significa rileggerla e mi sembrava interessante realizzare un racconto che non si sviluppasse in senso longitudinale, dove passato, presente e futuro si mischiano”. Ma bisogna saperle maneggiare certe costruzioni, appoggiarle su sceneggiature solidissime, renderle digeribili, prima che intelligibili, al pubblico. E vale a poco il trincerarsi dietro la voglia di ricerca e sperimentazione quando l’effetto diffuso è la noia, l’irritazione e il ridicolo, e il rischio alla fine è quello di trovarsi in sala solo quell’unico spettatore di Deschamps di cui sopra. Peccato, il tema meritava.

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