di Paola Cortese
(paola.cortese@rai.it)La classe operaia non va più in paradiso. E quella fetta consistente che lavora in Fiat ci ha pensato Marchionne ad accompagnarla alle porte dell’inferno. Almeno è quanto emerge dalla lettura del pamphlet di Ritanna Armeni, “Lo squalo e il dinosauro”, libro scritto sull’onda delle polemiche seguite al caso Pomigliano, con la firma di un nuovo contratto più conveniente per l’azienda ma peggiorativo per i lavoratori e la cacciata da tutti gli stabilimenti del gruppo della Fiom, l’unico sindacato che si è rifiutato di firmarlo. Qui l’autrice trova il nodo di tutta la storia: è lo scontro senza quartiere tra lo “squalo” Marchionne, che ha cercato e ottenuto mano libera sull’azienda, e il “dinosauro” Fiom, che ha tentato di resistere invano.
Ritanna Armeni intinge la penna nella passione, entra nella vita dei lavoratori e scopre dettagli che sconcertano e indignano. L’intento perseguito è quello di accendere un riflettore su una zona che nelle cronache resta al buio: la condizione concreta degli operai. Che, contrariamente all’opinione oggi trionfante, Armeni non considera una categoria ottocentesca sconfitta dalla storia e quindi indegna di attenzione. E allora ecco il resoconto, dalla viva voce dei protagonisti, della vita in fabbrica: la decurtazione delle pause, i ritmi selvaggi alla catena di montaggio, le vessazioni dei capi, i danni irreparabili alla salute. Un affresco degno di un romanzo di Dickens, che ci riporta ai tempi in cui l’attività sindacale era vietata, i diritti dei lavoratori ignorati e calpestati. I ritmi imposti da Marchionne sono sempre più serrati, impediscono agli operai di andare in bagno, di bere un sorso d’acqua, addirittura di soffiarsi il naso. E il clima che si respira negli stabilimenti, da Mirafiori a Pomigliano a Melfi è sempre lo stesso: quello della paura. Paura di perdere il posto, paura che Marchionne possa da un giorno all’altro dare seguito alle minacce di trasferire la Fiat all’estero.
Tra le domande che più angosciano c’è quella dell’identità di un operaio svuotato del suo ruolo sociale: un lavoratore che a Mirafiori viene chiamato solo per tre o quattro giorni al mese ha perso ogni sicurezza, riunisce in sé i tratti del cassintegrato e del precario. Triste l’immagine del padre di famiglia che aspetta un sms prima del telegiornale per sapere se l’indomani mattina potrà andare a lavorare. E poi l’assurdità del ricorso sempre più massiccio alla cassa integrazione contemporaneamente alla richiesta di rendere la produzione più serrata. Tre giorni di lavoro massacrante cui fanno seguito settimane di riposo forzato. Sullo sfondo il mondo della produzione industriale stravolto dalle nuove opportunità della globalizzazione. Gli operai italiani sullo stesso piano di omologhi stranieri che costano la metà, pedine equivalenti che Marchionne può muovere indisturbato sulla scacchiera mondiale.
E infine la domanda estrema, il nocciolo di tutta la storia: che cosa resta di un sindacato, la Fiom, estromesso dagli stabilimenti, con i suoi ritratti di Trentin e Berlinguer e le sue bandiere rosse, non più riconosciuto dal vertice dell’azienda ma ancora forte dei suoi 360mila iscritti? Magra consolazione per i delegati che non possono entrare nelle salette sindacali né parlare con gli operai. Ma paradossalmente, più forte è stato lo scontro con Marchionne, più visibile è diventata la Fiom, punto di riferimento dell’Italia che non ci sta, che non si piega a negoziare sui diritti. Come dice un’operaia: “Non posso stracciare la tessera Fiom perché non posso compromettere il futuro dei miei figli come uomini liberi”. E’ la domanda che conclude l’appassionata analisi di Armeni, l’alba di un nuovo modo di fare sindacato, ancora da inventare, da opporre alle logiche della globalizzazione, una sfida da far tremare i polsi per il sindacato di Maurizio Landini. Ma che di sicuro lui è disposto a raccogliere.