di Federica Marino
Oltre 70 anni dopo la grande mostra fiorentina dedicata a Giotto nel 1937, in occasione del sesto centenario della morte, l’arte del “più sovrano Maestro stato in dipintura” torna in una monografica romana, che lo inquadra nel periodo di cui è stato il simbolo e il punto di svolta.
La rappresentazione tridimensionale dello spazio, il nuovo naturalismo dell’immagine e della figura umana, la dimensione affettiva della pittura divennero infatti, dopo Giotto e grazie a lui, temi e aspetti ineliminabili del dibattito artistico.
Giotto e il Trecento, questo il titolo della mostra dal 6 marzo al 29 giugno al Complesso del Vittoriano, ricostruisce l’intero percorso creativo dell’artista, inquadrandolo nel suo tempo e seguendone gli influssi, attraverso 150 opere. Venti quelle di Giotto, difficili da spostare: eccezionale la loro presenza nell’esposizione romana, che si propone come evento unico e irripetibile.
La mostra si presenta come una ricostruzione della situazione artistica italiana tra l’ultimo decennio del XIII secolo e la prima metà del XIV secolo, e in questa luce Giotto appare come il primo pittore realmente “italiano”, sia per l’ampiezza del territorio su cui operò che, soprattutto, per l’influsso che ebbe sui contemporanei e i successori, nei suoi spostamenti lungo la Penisola. Firenze, Rimini, Roma, Assisi, Padova, Napoli, Milano le città che videro attivo Giotto: la mostra segue o ricostruisce i percorsi creativi innescati dalla presenza dell’artista e della sua bottega, grazie anche al progetto “L’altro Giotto”. Questo presenta opere del maestro, di allievi e di continuatori locali, fisicamente non presenti nell’esposizione, ma comunque esplorabili grazie a tecnologie multimediali, fotografie, filmati e testi esplicativi.
Tra le opere presenti in mostra spiccano veri e propri capolavori di grandi maestri come i pittori Cimabue, indicato tradizionalmente come maestro di Giotto e invece più probabilmente massimo rappresentante della tradizione pittorica fino alla rivoluzione giottesca, Simone Martini, Pietro Lorenzetti.
Ampio spazio, per uno sguardo a tutto tondo, viene dalla presenza in esposizione di oggetti suntuari– cioè di lusso, quali manufatti di oreficeria e manoscritti miniati- che denunciano un’influenza diretta dei temi grotteschi e che, come oggi gli oggetti di design, veicolavano all’epoca i temi stilistici e iconografici del momento. Gli orafi Guccio di Mannaia e Andrea Pucci Sardi, tra i miniatori Cristoforo Orimina e il Maestro del Codice di San Giorgio, uno dei più raffinati e colti interpreti della lezione giottesca, sono gli autori rappresentati. La sezione dedicata alla scultura, documenta l’influenza di Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio su Giotto e la svolta impressa da quest’ultimo anche alla plastica medievale.
Non affatto casuale la collocazione romana della mostra: l’Urbe e i suoi monumenti antichi svolsero nella formazione del linguaggio giottesco una funzione ancora da approfondire, ma di indubbia importanza. Ne parla da qualche anno la letteratura specialistica e nell’apparato critico dell’esposizione Arturo Carlo Quintavalle ipotizza per Giotto un percorso da architetto non limitato alle tre opere note ma fondato, se non su altre realizzazioni, sulla profonda conoscenza dell’architettura contemporanea – in particolare francese - e antica: quella romana classica e paleocristiana. Nei suoi (almeno) due soggiorni a Roma, Giotto realizzò per il cardinale Jacopo Stefaneschi opere di fondamentale importanza, per la prima volta riunite in Giotto e il Trecento.