di Germana Lang
Quali sono gli obiettivi, le novità di questa XIV Giornata in ricordo delle vittime di mafia?
Non c’è una novità, c’è una continuità con percorsi di questi anni che abbiamo fatto nel mondo della scuola, delle università, per operare nella conoscenza e nell’approfondimento. C’è da continuare l’impegno con le cooperative che lavorano sui terreni confiscati ai mafiosi. C’è un grande lavoro di fermento sociale in varie parti del territorio, perché le mafie hanno una dimensione nazionale, lo abbiamo visto recentemente nelle operazioni delle forze dell’ordine a Trento, Milano, Roma, che impongono una riflessione molto più ampia. Dopo questa giornata, saremo a Strasburgo, al Parlamento europeo, per chiedere la confisca e l’uso sociale dei beni mafiosi in territorio europeo, per restituire alla collettività investimenti e patrimoni delle mafie. E poi, c’è soprattutto un’attenzione che vogliamo portare avanti verso tutte le vittime della criminalità, della violenza mafiosa, senza dimenticarci delle vittime del terrorismo e delle vittime del dovere. C’è quindi una continuità di impegno, di lavoro, di presenza sul territorio nazionale e non solo.
Nella lotta alla mafia risuonano spesso parole come legalità, impegno, consapevolezza. Quale trova più difficile da far crescere nella collettività e nella politica?
Molte parole sono stanche, sfilate, svuotate del loro significato. La prima mafia che dobbiamo combattere è quella delle parole, perché a parole ci sono tutti. Tutti parlano di legalità, di giustizia, di pace, di dignità umana e poi molte volte queste parole vengono svuotate del loro significato. Più che parlare di educazione alla legalità, preferisco parlare di diritti a fianco dei doveri, di educarci tutti alla responsabilità o meglio alla corresponsabilità. Dobbiamo riscrivere un vocabolario, perché è troppo facile parlare della società civile, tutti a parole ci diciamo civili, preferisco parlare di società civile e responsabile. Non è un gioco di parole, ma proprio perché le parole hanno la loro forza e il loro significato dobbiamo sottolinearle nel modo giusto. Noi abbiamo questa grande corresponsabilità. Altra parola profonda è l’etica, la dimensione della ricerca dell’autenticamente umano, quella responsabilità e corresponsabilità degli universo gli altri. Il prendersi cura dei poveri, degli ultimi, dei più vulnerabili è il massimo dell’etica.
Quali sono in questa fase di crisi economica i settori sociali meno disponibili, meno sensibili alla lotta alla mafia?
I primi che si avvantaggiano, in periodi di crisi economiche, sono le mafie. Hanno un’occasione d’oro per prestare il loro denaro a chi è in difficoltà, fanno un po’ da banca, prestano denaro a tasso di usura anche a piccole e medie imprese. Riciclano, penetrano dentro piccole aziende, si fanno una bella faccia usando l’impegno e l’onestà di chi porta avanti queste attività. Bisogna mettere attenzione sulle frange più povere perché le mafie cavalcano e offrono forme di lavoro, lavoro nero, caporalato. Lo Stato deve dare risposte chiare, coerenti con la nostra Costituzione, conviene investire prima e non rincorrere i problemi dopo. L’art. 1 parla del lavoro. Lavoro che non è un optional, è un bisogno profondo delle persone, per vivere, crescere, per la dignità, per essere liberi. Contrasto alla mafia vuole dire politiche sociali, giustizia sociale e il lavoro è uno di questi elementi portanti, fondamentali.
Gli immigrati sono tra le fasce più disagiate, che fare per impedire che si rivolgano alla criminalità organizzata?
Le mafie hanno una grande strategia, riescono a catturare le frange in difficoltà. Queste leggi così dure, che respingono, che non mettono in grado chi è in clandestinità di trovare canali per un reinserimento positivo, li vanno a spingere proprio lì nella criminalità. Con chi è disperato la criminalità va a nozze. Arruola manodopera a poco prezzo. Non è un caso che nelle nostre carceri, circa 20 mila detenuti sono casi di persone che hanno certamente sbagliato, ma che sono gli anelli più fragili. Persone che se avessero avuto altre opportunità di riferimento, con ogni probabilità non sarebbero lì dentro.
Avete realizzato moltre iniziative per la formazione anche con le università. Può parlarcene?
Ce ne sono molte. L’università di Benevento fa un master sui beni confiscati: studenti approfondiscono, con l’aiuto di esperti, per formarsi sulla gestione dei beni confiscati. Penso all’Università di Bologna, dove due facoltà offrono strumenti di conoscenza ai loro studenti sui beni confiscati, sui giochi criminali e su quello che c’è dietro, sulle loro alleanze. Una lettura per scendere più in profondità, per non fermarsi in superficie alla conoscenza di questi problemi. Il 60% delle Università ha siglato protocolli per offrire all’interno dei loro corsi opportunità di conoscere meglio il fenomeno mafioso, per essere più responsabili. Più volte, lei ha sottolineato la difficoltà di restituire alla collettività i beni confiscati.
Quali gli ostacoli? Cosa chiedete alla politica?
Alla politica chiediamo delle politiche trasparenti, coerenti e continue. Bisogna distinguere far emergere le cose positive. Ci sono stati segnali da parte di segmenti politici veri e attenti, ma c’è molto di più da fare. Poi, non dimentichiamoci i tanti comuni commissariati per infiltrazioni mafiose, i politici che ogni tanto viene fuori che hanno connivenze, relazioni con segmenti della criminalità. Noi chiediamo trasparenza, chiarezza, coerenza, continuità e politiche serie . Per quanto riguarda i beni immobili confiscati circa 9 mila sono stati in parte consegnati, altri utilizzati, ma il 36% sono sotto ipoteche bancarie e nessuno è in grado di riscuoterli. Così rischiano di finire all’asta e quindi di tornare nelle mani dei mafiosi. Quindi c’è una paralisi per una quota di questi beni. Il nostro sogno era di avere un’agenzia nazionale che si occupasse di confisca, destinazione e utilizzo dei beni mafiosi, ma questo ancora non c’è. Per quanto riguarda i beni aziendali confiscati ai grandi boss, su 1091 solo 64 sono sopravvissuti, gli altri si sono persi per strada, per ritardi, burocrazia, difficoltà. E così dove c’era lavoro non è stato possibile continuare a dare lavoro, che vuol dire dignità e libertà per tante persone.
Nella foto Ansa, don Luigi Ciotti a Casal di Principe, terra dei Casalesi. In centomila hanno sfilato per dire no a tutte le mafie e in ricordo delle vittime delle cosche, tra cui don Beppe Diana, ucciso 15 anni fa