Dal Mondo


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Introduzione al rapporto 2008 di Amnesty International

Un atteggiamento che lascia sbigottiti, le potenze emergenti, forgiare una nuova unità d'intenti

I leader mondiali devono porgere le proprie scuse per non aver realizzato la promessa di giustizia e uguaglianza contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti umani (Dudu). Negli ultimi sei decenni molti governi hanno mostrato di privilegiare l'abuso di potere e interessi egoistici piuttosto che il rispetto dei diritti dei popoli che rappresentano.

Non vogliamo negare il progresso compiuto nello sviluppo di standard, sistemi e istituzioni sui diritti umani tanto a livello internazionale quanto regionale e nazionale. Grazie a questi standard e principi, la situazione è migliorata in molte parti del mondo. Un numero sempre maggiore di paesi si è dato garanzie costituzionali e legali per la protezione dei diritti umani. Solo pochi Stati, oggi, potrebbero permettersi di respingere palesemente il diritto della comunità internazionale di monitorare la loro situazione interna. Il 2007 è stato il primo anno completo di attività del Consiglio Onu dei diritti umani, con la cui istituzione tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno accettato di sottoporre a un'analisi pubblica il loro comportamento in materia di diritti umani.

Nonostante questi sviluppi, l'ingiustizia, l'ineguaglianza e l'impunità sono ancora il tratto dominante del nostro mondo contemporaneo.

Nel 1948, con un atto di straordinaria leadership, i capi di Stato e di governo furono d'accordo nell'adottare la Dudu. Gli Stati membri delle neonate Nazioni Unite mostrarono grande visione e coraggio, riponendo la loro fede nei valori globali. Erano profondamente memori degli orrori della Seconda guerra mondiale e già intravedevano la cupa realtà degli inizi della Guerra fredda. Il loro sguardo non era limitato solo all'Europa. Il 1948 era stato anche l'anno dell'indipendenza della Birmania, dell'assassinio del Mahatma Gandhi e dell'adozione delle prime leggi razziste in Sudafrica. Larga parte del mondo era ancora sotto il giogo della colonizzazione.

I redattori della Dudu agirono nella convinzione che solo un sistema multilaterale di valori globali, basato su eguaglianza, giustizia e stato di diritto, avrebbe potuto affrontare le sfide future. In un genuino esercizio di leadership, resistettero alle pressioni dei campi politici contrapposti; rifiutarono di stabilire cosa fosse più importante tra il diritto di parola e quello all'educazione, tra il diritto a essere liberi dalla tortura e quello alla sicurezza sociale; riconobbero che l'universalità dei diritti umani ("ogni persona nasce libera e uguale") e la loro indivisibilità (si deve puntare al riconoscimento di tutti i diritti, economici, sociali, civili, politici o culturali che siano, col medesimo impegno) erano la base per la nostra sicurezza collettiva come per la nostra umanità comune.

Negli anni che seguirono, quel senso di leadership e di visione cedette il passo a interessi politici di corto respiro. I diritti umani divennero un elemento di divisione tra le due superpotenze impegnate in una lotta ideologica e geopolitica per stabilire la propria supremazia. Una parte negava i diritti civili e politici, l'altra sminuiva l'importanza di quelli economici e sociali. I diritti umani finirono per essere usati come uno strumento per perseguire obiettivi strategici più che per promuovere la dignità e il benessere dell'umanità. I nuovi Stati indipendenti, intrappolati nella competizione tra le superpotenze, cercarono la strada verso la democrazia e lo stato di diritto ma, in molti casi, l'abbandonarono per privilegiare varie forme di autoritarismo.

Le speranze per i diritti umani crebbero con la fine della Guerra fredda, ma ben presto vennero polverizzate dall'esplosione di conflitti etnici e dall'implosione degli Stati, fenomeni che diedero vita a una lunga serie di crisi umanitarie contrassegnate da gravi e brutali violazioni dei diritti umani. Parallelamente, la corruzione, il malgoverno e la diffusa impunità per le violazioni dei diritti umani presero il sopravvento in varie parti del mondo.

All'inizio del XXI secolo, gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 trasformarono ancora una volta il dibattito sui diritti umani in uno scontro frontale e distruttivo tra "Occidente" e "non Occidente", limitando le libertà, alimentando il sospetto, la paura, la discriminazione e il pregiudizio tra i governi così come tra i popoli.

Le forze della globalizzazione economica portarono con sé nuove promesse, ma anche minacce. Sebbene i leader mondiali proclamassero il proprio impegno a sradicare la povertà, nella maggior parte dei casi ignorarono le violazioni dei diritti umani che, della povertà, sono la causa e l'elemento acceleratore. Ecco perché la Dudu è rimasta una promessa di carta.

Voltandosi indietro, ciò che stupisce maggiormente è l'unità d'intenti mostrata dagli Stati membri dell'Onu quando la Dudu venne adottata, senza neanche un voto di dissenso. Oggi, di fronte alle numerose e pressanti crisi dei diritti umani, i leader mondiali non hanno una visione comune su come affrontare le sfide contemporanee in un mondo che è sempre più in pericolo, insicuro e ineguale.

Il panorama politico oggi è molto diverso da quello di 60 anni fa: il numero degli Stati è cresciuto e alcune ex colonie si stanno affacciando come protagonisti globali accanto ai loro ex colonizzatori. Possiamo sperare che le vecchie e nuove potenze si uniscano, come fecero i loro predecessori nel 1948, e prendano di nuovo un impegno comune per i diritti umani? Il quadro che emerge dal 2007 non è incoraggiante. Riusciranno le nuove leadership e la pressione della società civile a fare la differenza nell'anno del 60° anniversario della Dudu?

Un atteggiamento che lascia sbigottiti
In quanto Stato più potente del mondo, gli Usa ispirano la linea di condotta agli altri governi. L'amministrazione statunitense ha proseguito nel tentativo di indebolire il divieto assoluto della tortura e degli altri maltrattamenti. Suoi autorevoli esponenti hanno evitato di denunciare la famigerata pratica del waterboarding. Il presidente Bush ha autorizzato la Cia a ricorrere ancora alla detenzione e agli interrogatori segreti, sebbene ciò si configuri come crimine internazionale di sparizione forzata. Centinaia di prigionieri a Guantánamo e Bagram, e migliaia in Iraq, sono rimasti per un altro anno (in molti casi, per il sesto anno consecutivo) in stato di detenzione senza accusa né processo.

Il governo Usa non ha fatto sì che le sue forze presenti in Iraq fossero pienamente chiamate a rispondere del proprio operato. L'ordine emesso dall'Autorità provvisoria della coalizione nel giugno 2004, che garantisce l'immunità dai procedimenti giudiziari locali alle compagnie private straniere che svolgono attività militari e di sicurezza, costituisce da questo punto di vista un ulteriore ostacolo. Grande impressione ha destato, nel settembre 2007, l'uccisione di almeno 17 civili iracheni ad opera di personale assunto dalla compagnia privata di sicurezza Blackwater. Queste azioni non hanno apportato alcun beneficio alla lotta contro il terrorismo, al contrario hanno recato grave danno al prestigio e all'influenza internazionale degli Usa.

La vacuità delle richieste statunitensi di democrazia e libertà all'estero è stata dimostrata dal continuo supporto degli Usa al presidente pakistano Musharraf, responsabile dell'arresto di migliaia di avvocati, giornalisti, difensori dei diritti umani e attivisti politici, colpevoli di aver chiesto democrazia, stato di diritto e indipendenza del potere giudiziario. Quando il presidente Musharraf ha imposto illegalmente lo stato d'emergenza, licenziato il presidente della Corte suprema e riempito le corti superiori di giudici più compiacenti, l'amministrazione Usa ha giustificato il sostegno nei suoi confronti definendolo un alleato "indispensabile" nella guerra al terrore.

La crescente insicurezza nelle città e nelle zone frontaliere del Pakistan è la riprova che, invece di aver fermato la violenza estremista, le politiche repressive del presidente Musharraf (comprese le sparizioni forzate e gli arresti arbitrari) hanno contribuito a propagare sentimenti anti-occidentali e gettato i semi di una maggiore instabilità in tutta la regione. Il popolo pakistano ha mostrato il proprio forte ripudio per queste politiche, ma nonostante questo gli Usa hanno continuato ad appoggiare il governo.

Il mondo ha bisogno di un impegno genuino e convinto degli Usa per la causa dei diritti umani, a livello nazionale e internazionale. Quest'anno, a novembre, i cittadini statunitensi eleggeranno il loro nuovo presidente. Perché gli Usa abbiano l'autorevolezza morale di proclamarsi campioni dei diritti umani, la prossima amministrazione dovrà: chiudere Guantánamo; processare i detenuti in tribunali ordinari federali oppure rilasciarli; annullare l'Atto sulle commissioni militari e garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani in tutte le operazioni militari e di sicurezza; rinunciare a usare prove estorte con metodi coercitivi e denunciare ogni forma di tortura o maltrattamento, a prescindere dal fine per cui verrà usata; elaborare una strategia praticabile per la pace e la sicurezza internazionali; negare il sostegno a leader autoritari e investire nelle istituzioni della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani, che favoriranno una stabilità di lungo termine; dovrà, infine, essere pronta a porre fine all'isolamento degli Usa nel sistema internazionale dei diritti umani e impegnarsi costruttivamente all'interno del Consiglio Onu dei diritti umani.

Se, in questi ultimi anni, l'amministrazione Usa si è distinta per aver sfidato il diritto internazionale, i governi europei hanno mostrato una certa inclinazione per i doppi standard. L'Unione europea (Ue) professa di essere "un'unione di valori, unita dal rispetto per lo stato di diritto, basata su standard comuni e sul consenso, impegnata per la tolleranza, la democrazia e i diritti umani" . Eppure, nel 2007, sono emerse nuove prove che vari Stati membri dell'Ue si sono voltati dall'altra parte o hanno colluso con la Cia nel sequestro, nella detenzione segreta e nel trasferimento illegale di prigionieri verso paesi in cui sono stati sottoposti a torture o ad altri maltrattamenti. Nonostante i ripetuti richiami del Consiglio d'Europa, nessun governo ha indagato a fondo o ha posto in essere misure adeguate per prevenire l'ulteriore uso del territorio europeo per rendition e detenzioni segrete.

Al contrario, alcuni governi europei hanno cercato di annacquare la sentenza del 1996 della Corte europea dei diritti umani che proibisce il rinvio di persone sospette verso paesi dove potrebbero rischiare la tortura. La Corte si è nuovamente espressa in questo senso, in uno dei due casi esaminati nel 2007, ribadendo il divieto assoluto di tortura e di altri maltrattamenti.

Mentre da più parti si critica la proliferazione regolamentare dell'Ue, in pochi lamentano la mancanza di regole comuni sul rispetto dei diritti umani all'interno dell'organismo. La verità è che l'Ue non è in grado di chiamare i propri Stati membri a rispondere del proprio operato su questioni di diritti umani che ricadono fuori dalla legislazione comunitaria. L'Agenzia per i diritti fondamentali, creata nel 2007, ha un mandato così limitato da non poter chiamare alcuno Stato a rendere concretamente conto delle proprie azioni. Mentre l'Ue stabilisce standard assai stringenti sui diritti umani per i paesi candidati all'ingresso, peraltro giustamente, una volta che questi entrano a farne parte, possono tranquillamente violarli.

Possono l'Ue o i suoi Stati membri chiedere il rispetto dei diritti umani alla Cina o alla Russia quando loro stessi si rendono complici di atti di tortura? Può l'Ue chiedere ad altri paesi, assai più poveri, di tenere aperte le proprie frontiere quando i suoi Stati membri limitano i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo? Può l'Ue predicare la tolleranza all'estero quando non affronta la discriminazione nei confronti dei rom, dei musulmani e di altre minoranze che vivono all'interno dei suoi confini?

Come per gli Usa, anche per l'Ue questo sarà un anno di importante transizione politica. Il Trattato di Lisbona, firmato dai governi dell'Ue lo scorso dicembre, chiede agli Stati membri un maggiore impegno istituzionale. In alcuni Stati membri, elezioni e altre scadenze hanno portato o porteranno al potere nuovi gruppi dirigenti che avranno così l'opportunità di agire in favore dei diritti umani, all'interno dell'Ue e a livello globale.

Mentre gli Usa e l'Ue sono in difficoltà rispetto alla situazione dei diritti umani al proprio interno, si riduce la loro capacità di influenzare altri governi. L'esempio più clamoroso, nel 2007, è stato quello di Myanmar. La giunta militare ha represso violentemente le manifestazioni pacifiche promosse dai monaci, ha fatto irruzione nei monasteri e li ha chiusi, ha confiscato e distrutto proprietà, ha picchiato e arrestato dimostranti, ha minacciato o ha preso in ostaggio amici e parenti di persone ricercate. Gli Usa e l'Ue hanno condannato queste azioni nel modo più deciso e hanno rafforzato l'embargo sui commerci e sulle armi, ma la situazione dei diritti umani sul terreno non è praticamente mutata. Alla fine dell'anno, migliaia di persone continuavano a rimanere in carcere, tra cui almeno 700 prigionieri di coscienza, il più noto dei quali è il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi che ha trascorso 12 degli ultimi 18 anni della sua vita agli arresti domiciliari.

Lo stesso vale per il Darfur, dove i governi occidentali hanno inciso veramente poco sulla situazione dei diritti umani. Le proteste internazionali e le massicce mobilitazioni dell'opinione pubblica hanno scolpito il nome del Darfur nella coscienza del mondo, ma purtroppo non hanno mitigato di molto la sofferenza della popolazione locale. Omicidi, stupri e violenze sono proseguiti senza sosta, il conflitto è diventato persino più intricato e una soluzione politica più lontana. Nonostante una sfilza di risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu, il dispiegamento della forza ibrida Onu/Unione africana deve ancora avvenire.


Potenze emergenti
In realtà, quando si parla di Myanmar o Darfur, il mondo guarda, non a torto, non tanto agli Usa bensì alla Cina come al paese col peso economico e politico necessario per cambiare la situazione. La Cina è il principale partner commerciale del Sudan e il secondo partner commerciale di Myanmar. Le ricerche di Amnesty International hanno mostrato che armi cinesi sono state trasferite in Darfur, nonostante l'embargo dell'Onu. La Cina giustifica da tempo il suo sostegno a governi che violano i diritti umani, come quelli di Myanmar, Sudan e Zimbabwe, affermando che i diritti umani sono una questione interna su cui gli Stati sono sovrani e non di politica estera: parole che fanno il gioco degli interessi economici e politici cinesi.

Eppure la posizione della Cina non è immutabile né impermeabile. Nel 2007, Pechino ha votato a favore del dispiegamento della forza ibrida di peacekeeping in Darfur, ha fatto pressioni su Myanmar perché accettasse la visita dell'Inviato speciale dell'Onu e ha ridotto il suo appoggio al presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe. Lo stesso fattore che in passato ha spinto la Cina ad avere aperte relazioni con regimi repressivi, il bisogno di fonti durature di energia e di altre risorse naturali, può oggi stimolare un cambio di atteggiamento. Da tempo, Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani sostengono che paesi con una situazione dei diritti umani negativa non creano un buon ambiente per gli investimenti: questi necessitano di stabilità politica e questa la forniscono i diritti umani. Forse anche la Cina inizierà a riconoscere che sostenere regimi instabili, con un deficit di rispetto dei diritti umani, non ha senso da un punto di vista economico: se Pechino vuole proteggere i suoi investimenti e i suoi cittadini all'estero, deve sostenere valori globali in grado di creare una stabilità politica di lungo periodo. Nonostante il cambiamento di approccio diplomatico, la Cina ha ancora un lungo cammino da compiere. Negli ultimi quattro anni è stata il principale fornitore di armi al Sudan; nel gennaio 2007 ha posto il veto a una risoluzione di condanna del Consiglio di sicurezza nei confronti delle violazioni dei diritti umani in Myanmar e deve ancora dare seguito alla promessa di migliorare la situazione dei diritti umani in vista delle Olimpiadi di Pechino.

Alcune riforme nell'applicazione della pena di morte e l'attenuazione delle restrizioni al lavoro dei giornalisti stranieri sono state sopraffatte dalla repressione nei confronti degli attivisti per i diritti umani e della stampa locale e dall'aumento del ricorso alla "rieducazione attraverso il lavoro", una forma di detenzione senza accusa né processo utilizzata in questo periodo per "ripulire" Pechino prima dei Giochi.

La preparazione dei Giochi olimpici ha prodotto meno passi avanti e più divisione sul tema dei diritti umani in Cina. Quando l'evento sportivo sarà finito, la comunità internazionale dovrà sviluppare una strategia efficace per spostare il dialogo sui diritti umani con Pechino su un piano più concreto e produttivo. Da parte sua, il governo cinese dovrà riconoscere che avere una leadership globale significa assumere responsabilità e rispondere alle aspettative e che un attore globale, se vuole essere credibile, non può ignorare i valori e i principi che formano l'identità collettiva della comunità internazionale.

E come si comporta la Russia in materia di diritti umani? Una Russia in un periodo di grande autostima, inondata dai proventi del petrolio, ha represso il dissenso politico, fatto pressione sui giornalisti indipendenti e introdotto leggi per imbrigliare le Organizzazioni non governative. Nel 2007 manifestazioni pacifiche sono state disperse con la forza e avvocati, difensori dei diritti umani e giornalisti sono stati aggrediti e minacciati. Il sistema giudiziario è rimasto vulnerabile alle pressioni dell'esecutivo. Una profonda corruzione ha ridimensionato lo stato di diritto e la fiducia pubblica nel sistema legale. L'impunità è stata dominante in Cecenia, spingendo alcune vittime a cercare giustizia a Strasburgo, presso la Corte europea dei diritti umani.

Riuscirà il nuovo presidente russo, Dimtry Medvedev, ad avere un approccio diverso in tema di diritti umani? Egli farebbe bene a guardarsi intorno, comprendendo che la stabilità politica di lungo periodo e la prosperità economica possono essere costruite solo in società aperte e in Stati che siano chiamati a rispondere del proprio operato.

Se i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno fatto poco per promuovere i diritti umani e molto per indebolirli, quale leadership possiamo aspettarci da potenze emergenti quali India, Sudafrica o Brasile?

Democrazia liberale consolidata con una forte tradizione legale di diritti umani e d'indipendenza del potere giudiziario, l'India ha le caratteristiche per essere una potenza modello. Ha giocato un ruolo positivo nel Consiglio Onu dei diritti umani. Le è riconosciuto il merito di aver portato al tavolo delle trattative i partiti politici e i ribelli maoisti del Nepal e di aver posto fine a un lungo conflitto armato che ha causato gravi violazioni dei diritti umani. Ma l'India dev'essere più attiva nell'applicazione, a livello nazionale e internazionale, dei diritti umani. Il governo ha proseguito i negoziati sull'estrazione del petrolio con la giunta di Myanmar, proprio mentre questa reprimeva violentemente le manifestazioni pacifiche dei monaci e di altri settori della popolazione. A Nandigram, nel Bengala occidentale, gli agricoltori che protestavano contro l'istituzione di una Zona economica speciale per l'industria sono stati attaccati, feriti e uccisi grazie alla complicità della polizia.

Il ruolo giocato dal Sudafrica nel Nepad (il Nuovo partenariato per lo sviluppo dell'Africa), che dà grande rilevanza al buon governo, aveva fatto nascere la speranza che i leader africani avrebbero assunto la responsabilità di risolvere i problemi africani, compresi quelli relativi ai diritti umani. Ma il governo sudafricano è stato riluttante a criticare le violazioni dei diritti umani nello Zimbabwe. I diritti umani si applicano a tutti, senza distinzione, e probabilmente nessuno meglio del popolo sudafricano lo sa. Pochi altri paesi hanno una responsabilità morale maggiore del Sudafrica di promuovere questi valori universali ovunque siano violati.

Paesi come Brasile e Messico sono stati attivi nella promozione dei diritti umani a livello internazionale e nel sostegno ai meccanismi dell'Onu sui diritti umani. Ma se non verrà colmato il divario tra ciò che fanno a livello globale e come si comportano in casa, la loro reputazione come campioni dei diritti umani sarà a rischio.

I diritti umani non sono valori occidentali (per inciso, i governi occidentali hanno mostrato di disdegnarli più di chiunque altro). Si tratta di valori globali e, in quanto tali, la possibilità di un loro successo si intreccia con la capacità dell'Onu di mostrare leadership. Sebbene, in tema di diritti umani, il Consiglio di sicurezza continui a barcamenarsi tra gli interessi contrapposti dei suoi membri permanenti, nel 2007 l'Assemblea generale ha mostrato di poter assumere un ruolo guida attraverso l'adozione della risoluzione che chiede una moratoria universale sulla pena di morte. Quel voto ha mostrato esattamente di che genere di direzione il mondo ha bisogno: uno Stato che ispira un altro Stato a comportarsi meglio, piuttosto che rincorrersi a marcia indietro fino a raggiungere il minimo denominatore comune. Questo è il meglio delle Nazioni Unite. Riuscirà quest'anno il Consiglio Onu dei diritti umani a mostrare uguale leadership nell'affrontare il sistema di Revisione periodica universale?

Un grande esempio di coraggiosa leadership, nonostante l'opposizione di Stati estremamente potenti, è stata l'adozione, da parte dell'Assemblea generale, della Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, approvata lo scorso settembre con 143 voti a favore al termine di un dibattito durato vent'anni. Due mesi dopo che l'Australia aveva votato contro, il nuovo governo del primo ministro Kevin Rudd ha presentato le scuse ufficiali per le leggi e le politiche di numerosi governi precedenti che hanno "inflitto profondo dolore, sofferenza e perdita" alle popolazioni aborigene.

Forgiare una nuova unità d'intenti
Mentre l'ordine geopolitico va incontro a movimenti tettonici, le vecchie potenze fanno passi indietro sui diritti umani e le nuove leadership devono ancora emergere o, se sono già emerse, mostrano un atteggiamento ambivalente sui diritti umani. Allora, quale futuro ci aspettiamo per i diritti umani?

La strada davanti a noi è accidentata. Conflitti complessi - molto visibili in Medio Oriente, in Afghanistan e in Iraq, dimenticati in luoghi come Sri Lanka e Somalia, solo per citare due casi - hanno un costo elevatissimo in termini di vite umane. I leader mondiali si muovono a tentoni nello sforzo di trovare una soluzione in Iraq e in Afghanistan o non mostrano affatto la volontà politica di cercarla, come nel caso della situazione in Israele e nei Territori occupati palestinesi, il cui conflitto è addirittura più vecchio della stessa Dudu ed è uno di quelli in cui è emerso con tutta evidenza il fallimento della leadership collettiva internazionale (sotto forma del Quartetto composto da Usa, Ue, Russia e Onu) nel contrastare l'impunità e l'ingiustizia.

Mentre i mercati finanziari globali barcollano e i ricchi usano la loro posizione e la loro indebita influenza per mitigare le proprie perdite, i bisogni dei poveri e dei settori vulnerabili finiscono nel dimenticatoio. Col tacito supporto dei governi, che rifiutano di monitorarle o di regolamentarne l'azione in modo efficace, fin troppe imprese continuano a farla franca per il loro coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani.

A fronte dell'abbondante retorica sullo sradicamento della povertà, manca un'adeguata volontà politica di agire. Almeno due miliardi di appartenenti alla nostra comunità umana continuano a vivere in povertà, lottando per avere acqua potabile, cibo e un'abitazione adeguata. I cambiamenti climatici riguarderanno tutti noi, ma saranno i più poveri a subire le conseguenze peggiori poiché perderanno le proprie terre, le proprie risorse alimentari e i propri beni. Luglio 2007 ha segnato la metà del percorso indicato dalle Nazioni Unite per conseguire gli Obiettivi del Millennio. Pur se lontani da un mondo perfetto, il raggiungimento di questi Obiettivi entro il 2015 migliorerebbe, in qualche modo, la salute, le condizioni di vita e l'istruzione di molte persone nei Paesi in via di sviluppo. Il mondo, purtroppo, non sta andando nella direzione giusta verso questi Obiettivi minimi e i diritti umani non vengono tenuti in debita considerazione in questo processo. Un cambio di rotta, uno sforzo e un'enfasi maggiori sono assolutamente necessari.

E dov'è finita la leadership necessaria per sradicare la violenza di genere? Le donne e le bambine sono colpite da alti livelli di violenza sessuale in quasi ogni parte del mondo. Nel Darfur martoriato dalla guerra, continuano gli stupri nella totale impunità. Negli Usa molte sopravvissute allo stupro, appartenenti alle comunità nativoamericane povere ed emarginate, non riescono a ottenere giustizia e protezione efficace da parte delle autorità federali e tribali. I leader del mondo devono impegnarsi maggiormente per trasformare in realtà i diritti umani delle donne e delle bambine.

Queste sono sfide globali con una dimensione umana. Richiedono una risposta globale. I diritti umani internazionalmente riconosciuti forniscono il quadro d'insieme migliore per questa risposta, perché i diritti umani rappresentano il consenso globale su cosa può essere accettato e cosa è invece inaccettabile nelle politiche e nelle pratiche dei governi.

La Dudu, intesa come un programma per una leadership illuminata, resta importante oggi così come lo era nel 1948. I governi del mondo devono nuovamente impegnarsi in favore dei diritti umani.

Instancabile, indignata e disincantata, la gente non rimarrà in silenzio se non verrà colmato il divario tra la sua richiesta di uguaglianza e libertà e il rifiuto che arriva dai governi. Il malcontento popolare in Bangladesh a seguito dell'aumento del prezzo del riso, i disordini in Egitto dopo l'aumento del prezzo del pane, la violenza post-elettorale in Kenya e le proteste contro gli sfratti e i problemi ambientali in Cina non sono solo esempi dell'impegno e dell'attenzione sui temi economici e sociali, ma anche il segno di una caldaia in ebollizione, di una protesta popolare contro il tradimento dei governi che non hanno portato giustizia e uguaglianza.

A un livello inimmaginabile nel 1948, oggi c'è un movimento globale di cittadine e cittadini che chiede ai propri leader di impegnarsi nuovamente per sostenere e promuovere i diritti umani. Gli avvocati pakistani con le toghe nere, i monaci birmani con le tonache color zafferano, i 43,7 milioni di persone che si sono alzate in piedi il 17 ottobre 2007 per chiedere un'azione contro la povertà, sono tutti vibranti segnali di una cittadinanza globale che si batte per i diritti umani e chiede ai propri leader di rendere conto del proprio operato.

In un villaggio del Bangladesh settentrionale, un gruppo di donne siede su stuoie di bambù in un angolo polveroso. Le donne stanno seguendo un programma di formazione sui temi della legalità. Molte di loro riescono a malapena a leggere e a scrivere. Ascoltano attentamente l'inseguante che, mediante poster e disegni, spiega che la legge vieta le spose bambine e prevede il consenso della donna al matrimonio. Le donne hanno appena ricevuto un prestito tramite il sistema del microcredito, gestito dal Comitato per il progresso rurale del Bangladesh, una grande Ong. Una donna ha comprato una mucca e spera di ottenere un reddito maggiore vendendo il latte. Un'altra vuole acquistare una macchina da cucire e ha messo su una piccola sartoria. Cosa spera di ottenere da quell'incontro? "Voglio conoscere meglio i miei diritti", dice. "Non voglio che le mie figlie soffrano come ho sofferto io, per questo devo imparare come proteggere i miei e i loro diritti". Nel suoi occhi brilla la speranza e la determinazione di milioni di persone come lei nel mondo.

Il potere della gente di generare speranza e produrre il cambiamento è molto attivo nel 60° anniversario della Dudu. La consapevolezza dei diritti umani si sta diffondendo a livello globale. I leader mondiali la stanno ignorando, a loro rischio.