Nato nel 1948 a Viareggio è il Paul Newman del calcio, l'allenatore di Moggi e Giraudo, il commendatore della Repubblica, il figlio di un socialista cui aveva giurato 'mai alla Juve', icona del più incredibile tra i trionfi azzurri. Duro, ambizioso, permaloso; e poi intelligente, intuitivo, stimolante. In altre parole, un vincente. Tra il prendere e il lasciare, l'Italia non solo lo prese, ma lo tenne anche, nonostante il coro di voci che ne chiedevano le dimissioni nella bufera di Calciopoli 2006, e una stima con Moggi mai rinnegata.
Prima di allora, una normale carriera da calciatore (libero vecchio stampo negli anni '70, soprattutto con la maglia della Samp), una brillante ascesa da allenatore (giovanili della Samp nell'82, Pontedera come prima panchina prof, poi Cesena, Lucchese, Atalanta e Napoli, dove compie il primo capolavoro, la zona Uefa), e nel '94 la chiamata di Moggi alla Juve. Confesserà poi di esser dovuto andare sulla tomba del padre, vecchio socialista toscano che gli aveva chiesto di non allenare la squadra dei padroni, a chiedere scusa. E che scuse.
E' l'anno '94-95, la sua Juve torna a vincere lo scudetto dopo nove anni di astinenza. Comincia un filotto di vittorie in Italia (tre scudetti, l'addio alla Juve con la parentesi nera Inter e il ritorno in bianconero con altri due tricolori), ma c'è il neo della maledizione Champions: quattro finali raggiunte, una sola vinta con l'Ajax all'Olimpico. Ai rigori, segno premonitore. Alla Juve è il tecnico - oltre che di cinque scudetti, una Champions, un'Intercontinentale, una Supercoppa europea più spiccioli - del rilancio di Vialli, del legame forte con Ferrara e Deschamps, della crescita di Del Piero, poi dell'intuizione di Nedved esterno offensivo, ma anche di Montero terzino sinistro su Shevchenko nella finale europea col Milan a Manchester, stavolta fatale ai rigori. E' l'allenatore della squadra che vende Zidane o Vieri e vince ancora. Soprattutto, è l'allenatore della transizione, dalla sfera dell'Avvocato, Gianni Agnelli, a quella del Dottore, Umberto. E dunque di Moggi e Giraudo. E poi ancora della Juve finita in farmacia, secondo Zeman e la tempesta che ne seguì.
Nel 2004 approda alla panchina azzurra, targato. Eppure stupisce tutti, soprattutto chi è convinto che la sua juventinità sarà vincolante: ''Con Moggi parlavo, ma le convocazioni le facevo io e basta'', dirà poi ai magistrati che prima della partenza per il Mondiale lo sentono sul caso Gea. A proposito di convocazioni, il primo segnale è chiamare a Palermo, per Italia-Norvegia del settembre 2004, Francesco Totti, che non vuole aggregarsi perché infortunato. Le regole sono uguali per tutti, è il messaggio. Lippi è un padre o un fratello maggiore, dirà poi il romanista. E in questa parabola c'è la ''magia del Mondiale'', come la chiama ancora Lippi. Che, come noto, aveva già deciso di lasciare la panchina azzurra nei giorni della bufera Calciopoli, quando mezza Italia ne chiedeva le dimissioni per il coinvolgimento del figlio Davide nell'inchiesta Gea.
E' finita con l'Italia del calcio ai suoi piedi, letteralmente, a sollevarlo in trionfo a Berlino con la Coppa in mano, dopo la testata del vecchio allievo Zidane e i rigori, ancora loro. Per tutti, è sempre Marcello Lippi icona mondiale. Ha collezionato in azzurro 29 panchine con 17 vittorie, 10 pareggi e 2 sconfitte. Prima di questo caso era successo un'altra sola volta che un commissario tecnico unico riprendesse le redini della nazionale maggiore azzurra in un secondo periodo. Il caso precedente è quello di Vittorio Pozzo.
Il 26 giugno 2008, dopo la fine del rapporto tra Roberto Donadoni e la Nazionale, la FIGC lo richiama ad allenare la squadra azzurra, che Lippi guiderà ai Mondiali di calcio 2010. La presentazione ufficiale è avvenuta il 1º luglio a Roma.
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