di Sandro Calice
TAXI TO THE DARK SIDE
di Alex Gibney, Usa 2007 (Ripley's Film)
Alex Gibney, Brian Keith Allen, Greg D'Agostino, Maan Kaassamani, Moazzam Beg.
Con buona pace delle (tante) anime candide che hanno appoggiato e giustificato senza se e senza ma la “guerra al terrore” dell'amministrazione Bush, questo bel documentario di Alex Gibney ci mostra a quali orrori può arrivare anche la più grande democrazia del mondo quando è governata da persone senza scrupoli alle quali ha dato carta bianca. “Taxi to the dark side” ha vinto, tra gli altri premi, l'Oscar 2008 e il Tribeca Film Festival come migliore documentario.
Dilawar era un giovane taxista afgano. Aveva deciso di comprare un'auto perchè la vita dei campi non faceva per lui. La sera del 1° dicembre 2002 carica tre passeggeri. Sarà l'ultima volta che il padre, il fratello, la moglie e la figlia piccola lo vedranno vivo. Dilawar fu fermato dai militari statunitensi e portato nella prigione americana di Bagram con l'accusa di essere coinvolto in un attentato. Dopo cinque giorni di atroci torture (il referto del medico legale, tra le altre cose, parlerà di gambe “spappolate” come fosse stato investito da un autobus) Dilawar muore, nonostante i suoi stessi aguzzini non fossero convinti della sua colpevolezza. La sua storia fu raccontata in un'inchiesta di Tim Golden sul New York Times.
Gibney parte da qui, e ricostruisce un'agghiacciante sequenza di pratiche che ha accomunato il comportamento dei militari statunitensi da Bagram in Afghanistan ad Abu Ghraib in Iraq, fino a Guantanamo. Una sistematica sospensione dei diritti umani e una scientifica applicazione della tortura negli interrogatori (esplicitamente vietate dalle convenzioni internazionali) autorizzate, più o meno direttamente, dai massimi vertici del governo Usa: il presidente Bush, il vicepresidente Cheney e il segretario alla Difesa Rumsfeld. In nome della lotta al terrorismo, l'America ha dovuto abdicare ai suoi principi costituzionali ed è stata costretta dalla Storia e da queste persone a cedere al proprio lato oscuro. Una ferita ancora aperta con la quale Obama ha appena cominciato a fare i conti: il presidente Usa ha confermato di voler chiudere Guantanamo; il film ci rivela che solo il 7% dei prigionieri lì detenuti è stato catturato da soldati americani o alleati, tutti gli altri sono stati venduti da altri iracheni o afgani in cambio di denaro; di tutti loro, solo l'1% si sono rivelati effettivamente terroristi.
Gibney (“Enron: l'economia della truffa”, “Il processo a Henry Kissinger”) resta fedele alla sua idea che un buon documentario debba essere anche un buon film, nel suo caso – dice – una detective story. Ricostruisce l'intera vicenda, partendo dalla storia di Dilawar, attraverso documenti e testimonianze di prigionieri, guardie, investigatori, avvocati dei detenuti, membri dell'amministrazione, ufficiali dell'esercito, che grazie a un efficace montaggio sembrano a tratti consumati attori. Il filo conduttore non è una tesi da dimostrare, ma le leggi e la loro applicazione o il loro stravolgimento. Emerge così che c'è poco di scritto e che le torture sono maturate sulla base di un minimo impianto legale e di una generale, condivisa, pressione psicologica sugli ultimi anelli della catena di comando. E' stato così possibile per Cheney e Rumsfeld sostenere che si trattasse di poche mele marce da punire, come in piccolissima parte è avvenuto, lasciando impuniti i mandanti. Sarebbe profondamente sbagliato leggere il tutto in termini di americanismo e anti-americanismo, categorie semplificatrici molto popolari dalle nostre parti. Perché la sensazione è sempre e comunque che l'America è una democrazia forte, dove stampa e cultura sono libere di fare il loro mestiere, spesso con effetti dirompenti. Altra cosa è denunciare l'impunità del potere e dire che le torture sono universalmente riconosciute come crimini di guerra e che chi le autorizza, dunque, dovrebbe essere giudicato come criminale di guerra. In altre parti del mondo, almeno, così avviene.