di Maurizio Iorio
Che i concerti italiani di Bruce Springsteen siano stati tutti da repertorio antologico, è un dato di fatto acquisito. E’ storia, punto e basta. Su quell’incredibile feeling che unisce il Boss al Belpaese, ascendenze a parte (mamma Zirilli, calabrese), ci sarebbe da scomodare i sociologi, ma non più di tanto.
“Ogni pubblico ha la sua cultura, ed anche un modo diverso di rispondere alle sollecitazioni. Qui siete straordinari, noi lo percepiamo e ci mettiamo un entusiasmo diverso”, ha detto nel 2003 il chitarrista Miami Steve Van Zandt, per il Boss quasi un fratello, prima del concerto di Firenze. La conferma è arrivata in una recente intervista a Vanity Fair, nella quale Springsteen ha definito quello italiano “il pubblico migliore del mondo”.
Da allora il rocker del New Jersey è tornato spesso e volentieri, e non solo per i sold-out che fa registrare ovunque. E’ anche per il piacere di una simbiosi totale con questo pubblico, non riscontrabile neanche in America, di una totale comunione di sensi e di intenti che viene da lontano e che da noi trova la sua apoteosi. Ergo, nel tour mondiale di “Workin’ on a dream” non poteva mancare l’Italia dove, a partire da domani, il Boss terrà tre concerti. Il 19 a Roma, per la prima volta allo Stadio Olimpico, con inizio alle 22, a causa della coincidenza con i Campionati mondiali di nuoto, il 21 a Torino ed il 23 ad Udine, entrambi alle 20,30. Quando gli hanno chiesto di posticipare l’orario d’inizio del concerto romano, ha risposto semplicemente: “Basta che ci facciano suonare le nostre tre ore”. E tre ore di concerto, ai suoi ritmi, ed a quasi 60 anni (il 23 settembre), non sono uno scherzo. Anche questo fa parte della leggenda, ormai fama, che regolarmente lo precede.
Quello di Springsteen è il più grande spettacolo che il rock abbia inventato per rappresentare se stesso. Sangue (metaforico), sudore, lacrime, amore, guerra, illusione, disillusione, sogno, sofferenza, speranza, gioia, è questo l’armamentario emotivo che attraversa come un filo rosso tutte le canzoni del Boss, e che alimenta l’aspettativa di concerti sempre più epici. Perché se uno dei motivi per andarlo ad ascoltare è l’incredibile energia che Springsteen e la sua E Street Band infondono nei loro, interminabili show, l’altro è da ricercare sicuramente nell’immedesimazione del pubblico con i protagonisti delle sue canzoni, eroi del quotidiano nei quali ognuno può riconoscersi e condividerne il destino: impiegati, poliziotti, pompieri, insegnanti, diseredati, dropouts, sono loro i protagonisti di una lotta costante per la sopravivenza nella giungla metropolitana, figli di un paese (ma vale per tutti) che li ha fondamentalmente traditi. L’American Dream è stata una illusione, la terra promessa non è mai stata raggiunta, ma la speranza vive ancora, come la fiammella che serve per alimentare l’ultimo fuoco. Così è arrivato Obama ed il suo “Yes, we can”, che il Boss ha subito fatto suo, diventando ufficialmente un sfegatato supporter del neo-presidente degli States. E’ proprio quel “yes, we can”, traslato in uno stadio, ad alimentare i sogni e le illusioni di tre generazioni, che affolleranno i concerti italiani per dimenticare, almeno per tre ore, i problemi di una società con la quale ci si trova sempre meno in sintonia.
Il rock non ha cambiato il mondo, come si sperava negli anni ’60, “ma aiuta almeno a vivere meglio”, a detta del Boss. Le cronache lo descrivono in gran forma, lo stesso dicasi per la band, che comincia però a perdere qualche pezzo: la signora Scialfa, moglie del capo, è a casa con i figli, Danny Federici ci ha purtroppo lasciato, e Max Weimberg, almeno per ora , ha ceduto la sua batteria al figlio Jay. La scaletta, la cui ossatura è costituita dai classici del repertorio spreengsteeniano, cambia ogni sera, ed offre al pubblico l’opportunità di richiedere brani, anche i più dimenticati, che il Boss spesso esegue anche a dispetto della memoria, divertendosi come un bambino. La “spiritual guidance” del popolo del rock, l’ultimo eroe romantico di una generazione di perdenti, sta per celebrare di nuovo le sue vecchie liturgie. “New skin for the old cerimony”, nuove pelli per vecchie cerimonie, direbbe Leonard Cohen, uno che se ne intende. I santuari sono i nostri campi di calcio.