di Carla Toffoletti
“Un cappotto di lana buttato, nelle mie mani si trasforma in gioielli bellissimi che piacciono molto. Per noi la creazione è spontanea, fa parte della nostra cultura”.
Sevla Sejdic viene dalla Bosnia, è una donna rom arrivata in Italia circa 30 anni fa. Ha abitato per oltre 10 anni in un campo rom. E’ una delle socie fondatrici dell’Onlus “Occhio del riciclone” e produce con i suoi otto figli abiti, gioielli e oggetti di design usando materiale di riciclo. In questa attività è riuscita ad inserire anche il marito, che fa l’amministratore. E’ dentro una rete molto più ampia e i suoi lavori vengono venduti anche alla Città dell'Altra Economia, a Testaccio.
"Cercavo disperatamente un lavoro - racconta Sevla - ma il fatto di essere rom non mi aiutava. Il pregiudizio sugli zingari è ancora molto forte. Non sapevo cosa fare, ma di una cosa ero certa: non volevo che le mie figlie crescessero in un campo rom. Quando il lavoro non c'è, bisogna inventarselo. Non avevo soldi per comprare le materie prime e così io e mio marito abbiamo incominciato a raccogliere i cerchioni delle macchine e le camere d'aria nelle discariche, e a confezionare pouf per la casa, borse, cinture, un po' di tutto. Oggetti che nelle nostre mani si trasformavano spontaneamente in pezzi di design di grande successo. Grazie anche all'aiuto dei fratelli italiani che hanno creduto e investito su di noi, abbiamo presentato il progetto e abbiamo ottenuto un finanziamento per aprire il laboratorio e comprare i primi macchinari e abbiamo iniziato.
Per due anni non abbiamo visto lo stipendio, ma riuscivamo a pagare il mutuo, l'affitto e i debiti. E' nata la cooperativa L'Occhio del riciclone". All'inizio era difficile, non ci conoscevano e non c'era una grossa sensibilità al riciclo. Piano piano abbiamo aperto un negozio e il Comune ci ha dato uno spazio alla Città dell'Altra Economia.. Ho creato lavoro per me e per le mie figlie, e anche per altre ragazze rom che si possono inventare un mestiere. E' utilissimo. Sono ragazze nate in Italia, come i miei figli, che spesso hanno studiato ma che trovano grosse difficoltà a trovare un impiego stabile. La mia è un'attività di successo, piace tanto. Inoltre lavoriamo anche per l'ambiente, recuperando e rilavorando solo materiale di scarto: plastica, carta, camere d'aria. Faccio anche laboratori nelle scuole per ragazzi italiani e rom, per sensibilizzarli al riciclo, al recupero di tutti quei materiali che normalmente vengono buttati. E' un grosso momento di incontro".
Quali sono le difficoltà, per una donna immigrata, di aprire un'attività?
“La donna rom ha mille difficoltà. Bisogna vincere le resistenze e i pregiudizi che sono ancora molto forti. E' difficilissimo ottenere un finanziamento. Nessuno è disposto a investire su di noi e sulle nostre capacità . Eppure la vera integrazione passa per il lavoro. Spesso le donne rom sono costrette ancora a chiedere l'elemosina. ma volendo si può cambiare. Noi donne abbiamo delle capacità che sono uniche. La cooperativa e le associazioni possono essere una strada. Sono io che ho dato lavoro ai miei otto figli e a mio marito. Oggi sono un'imprenditrice, una sarta di successo. Volevo cambiare la mia vita e quella dei miei ragazzi e ce l'ho fatta. Qualcuno ha creduto in me”.
L'imprenditoria immigrata esiste da 30-40 anni , ci spiega l'antropologa Rosanna Gullà, che ha lavorato all'Oim per un progetto su questo tema, ed è stata sempre un'iniziativa autogestita. Solo di recente Amministratori pubblici e banche si interessano a loro, sia perchè gli immigrati sono diventati interessanti clienti potenziali, sia per un'attenzione alle politiche integrative. Ci sono imprenditori immigrati che hanno avviato le loro imprese con successo. Gli ultimi dati Istat ci dicono che dagli immigrati dipende il 9,5% del nostro Pil. Il 10% dei 250mila esercizi pubblici italiani è gestito da extracomunitari, e si tratta di un dato destinato a crescere. Ma pensare agli immigrati solo come a un popolo di colf o piccoli commercianti sarebbe riduttivo. Il 7,2% delle imprese individuali presenti sul territorio è messo in piedi o gestito da un "capo" nato in un paese fuori dai confini comunitari. Lo dice un'indagine dell'Unioncamere, che fornisce un dettagliato ritratto degli stranieri che intraprendono. Spesso sono donne.
Ma le difficoltà che i migranti incontrano ad affrontare l'mprenditoria sono ancora tante: l'accesso al credito e la possibilità di affittare locali sono spesso ostacoli difficili da superare. E questo non per diversità culturali, ma per un persistente atteggiamento discriminatorio e di sfiducia nei loro confronti. Alla base dell'imprenditoria migrante c'è spesso una grossa spinta personale, una grossa motivazione a riscattarsi dalle condizioni di indigenza dalle quali sono sfuggiti nel loro paese. Spesso per le donne è la nascita di un figlio a far scattare la molla. L'imprenditoria è l'obbiettivo da raggiungere visto che negli altri campi è difficile trovare lavoro, o se si trova è con qualifiche molto basse. L'autoreddito diventa la soluzione. Per le donne in particolare, che spesso fanno da apripista alla loro famiglie, e che hanno la capacità di ricominciare a pensare alla vita, facendo cose anche apparentemente semplici.