di Elisabetta Marinelli
Dietro a ogni grande vino c’è la storia di una terra e di un uomo. Narra l’incontro tra un terroir e chi ha saputo trarne i frutti migliori facendone, talvolta, etichette leggendarie. Di questa storia fanno parte profumi e sfumature unite al genio di una intuizione. Un racconto custodito in una bottiglia, che porta con sé tradizioni antiche come antichi sono i vitigni e le terre da cui nascono. Degustare un vino può diventare, così, un’esperienza sensoriale straordinaria. Nei colori, nelle bollicine, nelle note aromatiche e nel gusto si possono rintracciare l’anima di una zolla di terra e la mano artigiana che l’ha nobilitata.
Intenditori e appassionati a parte, è difficile saper leggere tutto questo in un bicchiere di vino. Riuscire a farlo può essere un’esperienza unica come unico è l’appuntamento dell’anno con la degustazione organizzato da Bibenda, che per un giorno ha trasformato l’Hotel Cavalieri di Roma nel tempio della cultura enologica. 600 persone, tra sommelier e amatori, e un solo protagonista, il vino, per una maratona sensoriale tra i marchi migliori. Da pomeriggio a sera, una passeggiata in cinque tempi sui sentieri del gusto italiani e stranieri: spumanti, champagne, bianchi, rossi e vini da dessert. Per ogni capitolo di assaggio un degustatore-guida, una sorta di direttore d’orchestra delle note olfattive, di decodificatore del dna di questi vini. Prima di ogni assaggio, il racconto di come è nato, per esempio, un grande barolo. Di come qualcuno abbia saputo renderlo straordinario negli equilibri rompendo schemi, sperimentando, osando.
Venticinque vini, tra i quali vere e proprie rarità. Si comincia con quello della festa per eccellenza: una Cuvée 1997 di Bellavista e una Riserva 1979 di Ca' del Bosco, due vere perle della Franciacorta assieme al grandissimo Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 1989. Si prosegue con tre Champagne da brividi tra i quali spicca il Premier Cru di Maillart Millesimo 1982. Poi è la volta dei bianchi. Il Terlaner 1987 sorprende per la straordinaria freschezza nonostante i 22 anni di affinamento in bottiglia. Un vino dai contrasti netti, dai chiaro-scuri caravaggeschi con note alpine e resinose, unite all’orzo e alla mela cotogna. Prodotto dalle Cantine Terlano, azienda tra le più piccole dall’Alto Adige, sorprende per le potenzialità evolutive. Altrettanto sorprendente è il Loewengang 1996 di Lageder, il primo a utilizzare la barrique in terra altoatesina. Questo chardonnay è la testimonianza che anche l’Italia è capace di far invecchiare i bianchi:11 mesi di maturazione e affinamento prima della immissione in commercio. Anche in questo caso, straordinaria freschezza nonostante gli anni. Si passa quindi ai rossi. Da Biondi Santi 1981 a Mascarello 1986, da don Anselmo di Paternoster e Amarone Bertani 1964 al leggendario Fiorano 1988.
Degustare il Fiorano 1988 significa incontrare un vino ormai introvabile: delle vigne- lungo l’Appia antica, sulle prime pendici del vulcano laziale- non resta traccia, dei vini nemmeno. Ed è incredibile scoprire come il Principe Boncompagni Ludovisi abbia saputo costruire uno dei più grandi bordonesi in Italia, facendolo maturare in botti mai sostituite in oltre 40 anni di attività e libero da ogni tecnicismo. Un vino considerato immortale, di eleganza appunto principesca e caratterizzato da note lunari. Don Anselmo di Paternoster, poi, è come una cartolina dal Vulture. Bottiglia del 1995, un’annata straordinaria per l’Aglianico, che restituisce tutta la composizione piroplastica del terreno di queste zone. Un trionfo di mineralità vulcanica con note di cenere, lava e fumo in perfetto equilibrio con una florealità appena appassita. Si tratta di un vino nato in onore di don Anselmo, patriarca e fondatore della casa vitivinicola, diventato famoso per il suo spumante da Aglianico e per le prime prove di Aglianico Superiore e Nobile Vetusto. L’applauso va al Mascarello 1986, prodotto da Bartolo Mascarello, uno dei pochi re dei vini di Langa. Un vino di grande corposità unita a note metalliche, al profumo di erbe alpine, arancio e rose appassite. L’ultimo dei mohicani, come amava definirsi, grande testimone e difensore della migliore tradizione barolistica che disegnava le fantasiose etichette delle sue bottiglie, ha saputo regalarci un barolo unico e difficile da dimenticare.
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