GREEN ZONE

di Sandro Calice

GREEN ZONE
di Paul Greengrass. Gran Bretagna, Usa 2009 (Medusa)
Matt Damon, Greg Kinnear, Jason Isaacs, Amy Ryan, Khalid Abdalla, Yigal Naor, Nicoye Banks, Said Faraj, Sean Huze, Bijan Daneshmand, Raad Rawi, Jerry Della Salla, Edouard H.R. Gluck, Allen Vaught, Brendan Gleeson, Antoni Corone


La guerra in Iraq, la più mediatizzata della storia, continua a essere così sviscerata anche dal cinema che diventa difficile raccontarla da una prospettiva originale. Ma questo, parola del regista, non è un film sulla guerra in Iraq.

Roy Miller (Damon) è un ufficiale dell’esercito statunitense che arriva in Iraq nel 2003 con l’incarico di trovare i depositi delle armi di distruzione di massa che secondo l’intelligence sarebbero nascoste da qualche parte. Sono missioni pericolose, in cui lui i suoi uomini rischiano costantemente la vita. Per questo all’ennesima ricerca infruttuosa Miller inizia a dubitare delle fonti dell’intelligence. Ne parla con i suoi superiori ma viene zittito. La strategia messa in atto da Poundstone (Kinnear), alto funzionario della Dia, non può essere messa in discussione. Ma il comandante di postazione della Cia, Martin Brown (Gleeson), lo aggancia confessandogli di avere i suoi stessi dubbi, e lo spinge ad indagare. Durante una missione Miller si imbatte in Freddy (Abdalla), un iracheno che odia il regime di Saddam e che per caso ha delle informazioni preziose. Sullo sfondo della guerra, comincia così un gioco pericoloso in cui Miller, tra spie e segreti governativi, dovrà decidere quanto è disposto a rischiare per la verità.

Non è un film sulla guerra in Iraq, dicevamo, nel senso che Greengrass (regista d’azione e d’impegno, da “United 93” alla saga di Jason Bourne) costruisce un thriller e decide di ambientarlo nello scenario più difficile, quello di una guerra in corso. Il realismo è estremo,l’attenzione ai dettagli grande, con consulenti militari che hanno seguito tutta la produzione del film e con molti veri reduci della guerra in Iraq che recitano le parti secondarie, e l’ispirazione viene dal vero racconto di quella guerra fatto dal giornalista del Washington Post a Baghdad, Rajiv Chandrasekaran. Lo stile, poi, è quello a cui il regista ci ha abituati con Bourne: adrenalina sempre sollecitata, suono e montaggio martellanti, uso – anche eccessivo – della telecamera a spalla nelle scene d’azione (particolarmente efficace però, va detto, la sequenza dell’inseguimento a tre nel finale). Il problema è che il contesto non è propriamente ininfluente ai fini della partecipazione dello spettatore. Di quella guerra sappiamo tutto (?) e non si riesce a sospendere il giudizio semplicemente gustandosi un thriller, che tra l’altro, purtroppo, sappiamo pure come va a finire . Va bene poi giocare con gli stereotipi (il soldato onesto che lotta solo per la giustizia anche contro il suo Paese, il dirigente della Cia in preda a rimorsi morali, il cittadino indigeno che ama il nemico, tutti bravi e buoni), ma il contrario dello stereotipo diventa stereotipo esso stesso.