di Federica Marino
Si intitola Russie!, e non è un errore di ortografia, la mostra che dal 21 aprile porta a Venezia un secolo di arte e di storia russa.
Dalla Rivoluzione di ottobre alla Russia di Putin, si tratta infatti di più “Russie”, sistemi politici e ideologici che si sono succeduti nello stesso luogo geografico, in una sequenza di trasformazioni viste anche in Europa e come amplificate nella loro versione a Est. A Ca’ Foscari sono così stati raccolti i dipinti della collezione Morgante – dall’inizio del Novecento all’underground russo degli anni Sessanta, con alcuni esempi di arte post-rivoluzionaria - e le migliaia di testimonianze iconografiche della Sandretti, oltre ventimila pezzi fra dipinti, sculture, opere grafiche, porcellane, manifesti, cartoline illustrate, distintivi, oggetti e libri. Il risultato, un affresco che ripercorre le vicende politiche e sociali russe attraverso la rappresentazione che artisti di regime e dissidenti ne hanno dato. Subito la corposa esposizione rivela la propria complessità: se il “grado zero” serve a documentare un secolo particolarmente denso per l’Europa e densissimo per la Russia, temi e riflessioni che travalicano il pensiero artistico vi si aggiungono e intrecciano, restituendo riflessioni al confine tra politica, sociologia e filosofia.
Il taglio scelto appare chiaro nel sottotitolo della mostra, che mette in gioco “memoria/mistificazione/immaginario”: la memoria delle avanguardie, la mistificazione dell’arte di regime, l’immaginario di quella non ufficiale. Centrale nel percorso espositivo di Ca’ Foscari è la riflessione sul ruolo dell’arte rispetto al potere: ancella, antagonista, cronista? Posizioni tutte possibili, a seconda di chi produce arte, e mutevoli nel tempo, in Russia come altrove. La Rivoluzione d’ottobre segna una svolta nella rappresentazione artistica post-zarista: se fino ad allora la pittura era stata di corte e celebrativa o misticamente realizzata nell’atemporalità delle icone, dal 1917 in poi diventa strumento di propaganda e poi manifestazione di una libertà personale o di una chiara e clandestina dissidenza. Il XX secolo ha poi moltiplicato le possibilità di rappresentare la realtà: cinema e fotografia si aggiungono alle forme tradizionali di pittura e scultura, con una maggiore adesione al soggetto raffigurato e una maggiore “credibilità”. Fittizia, data la manipolabilità delle nuove tecniche, ma funzionale agli scopi del realismo socialista. Il percorso espositivo apre con l’arte di regime e ne illustra gli aspetti psicosociali della propaganda e della comunicazione di massa.
Nell’atrio d'ingresso della mostra sono esposti i due temi classici e mitici della pittura sovietica: l’inizio della Rivoluzione, ossia La presa del Palazzo d’inverno e la Salva dell’Aurora. Pochi rivoluzionari nella realtà, una folla nel racconto iconografico, ma la necessità di un mito fondatore ha finito per soppiantare la realtà, al di là delle testimonianze fattuali. L’immagine del capo è un altro esempio efficace dell’arte che ripensa il reale. Stalin era basso, mingherlino e butterato dal vaiolo, ma la sua immagine in tutta l’Unione sovietica non ne porta tracce: non tanto per ingannare la popolazione, ma perché il capo, un simbolo, oltrepassa la persona che ne incarna il ruolo.
I manifesti rivoluzionari cambiano temi e stili: i proclami essenziali per trasmettere in modo assoluto la Rivoluzione negli anni Venti lasciano il posto, in tempi di Nuova politica economica (1921-1929), agli slogan pensati dagli intellettuali per la pubblicità commerciale dell’economia di Stato. La fase staliniana vede il ritorno a una comunicazione più semplice, scivolando poi con il realismo socialista in raffigurazioni dalla forte carica emotiva: uomini e donne sorridenti, in marcia nel sole in un mondo dove – dice uno slogan coniato da Stalin – “vivere è diventato più allegro”. Una fuga verso il futuro, verso l’ideale ancora tutto da costruire: proprio come il Palazzo dei Soviet, progettato e mai edificato, eppure percepito e raffigurato nei souvenirs moscoviti come realmente esistente. Una realizzazione “virtuale”, insomma, e – dice Gian Piero Piretto, specialista e docente di cultura russa che fa parte del comitato scientifico - una “categoria filosofica” in cui si costruisce un mondo possibile al quale il destinatario crede scambiandolo con quello reale: chi guarda sa che ciò che vede non è reale, ma ci crede.
Al primo piano, i simbolisti e l’avanguardia prerivoluzionaria – tra loro anche inediti Kandinski, Chagall, Malevic, occultati dal regime staliniano per anni; l’arte non ufficiale che nasce con l’underground degli anni Sessanta: clandestina e sotterranea, l’arte si produce fuori dai luoghi ufficiali, in una dimensione privata e spesso personalista, viste le poche occasioni di confronto consentite agli artisti. Non semore questi si pongono contro il regime, ma rivendicano una libertà creativa che verrà via via messa a tacere nel passaggio Chruščev - Brežnev, fino alla metà degli anni Settanta. Una sala della mostra è dedicata alla “Biennale del dissenso”, che consacra in Europa l’arte non ufficiale sovietica ed est-europea. Infine opere di artisti degli anni Novanta che riprendono in modo diverso i tre temi della mostra: memoria/avanguardia/mistificazione del realismo socialista e l’immaginario della pittura non ufficiale. Ciò permette di capire come tutto il Novecento russo sia pervaso da linee di tendenza coerenti, raccolte per la prima volta in un disegno organico e globale, come un mosaico in cui ogni tessera ha senso in sé e contribuisce al senso complessivo, chiarendolo e arricchendolo.