I 70 anni di un cantastorie


Stampa

Francesco Guccini, l'anarchico e il ribelle

Il decano dei nostri cantautori gira la boa che immette direttamente alla vecchiaia con la barba bianca da vecchio saggio e con il cervello allenato come quello di un liceale. Le sue canzoni stanno lì a sfidare il tempo come le facce dell'Isola di Pasqua

 

di Maurizio Iorio

 

Francesco Guccini compie 70 anni. Una vita, lunga. Di quelle che non si scambiano con l’esistenza. Il decano dei nostri cantautori gira la boa che immette direttamente alla vecchiaia con la barba bianca da vecchio saggio e con il cervello allenato come quello di un liceale. Due figure antitetiche, eppure complementari, ma da cui non si può prescindere per delineare la figura di questo cantastorie indomito, anarchico e ribelle, ma bonario come un parroco di campagna.

 

Probabilmente il “maestro” sarà completamente disinteressato al prevedibile bailamme mediatico che farà da corollario al suo genetliaco. Se ne starà, sempre probabilmente, a festeggiare nella sua Pavana davanti ad una buona bottiglia di vino in compagnia di pochi amici. D’altronde, non c’è molto da festeggiare quando il proprio futuro è dietro le spalle. Eppure, un legame con il futuro, indissolubile, Francesco Guccini ce l’ha. Ce l’ha con quello delle migliaia di giovanissimi che, ancora oggi, affollano i suoi concerti, recitano a memoria le sue canzoni, citano i suoi versi come se fossero vergati a mano su un libro sacro. Per loro, per i teen-ager di oggi, Guccini è un way-finger, un indicatore di percorso. Un antico cantore della modernità. Perché quando le forme dell’arte non sono databili, sono sempre contemporanee.

 

Le canzoni di Guccini, quarant’anni di canzoni, non hanno età. La “locomotiva lanciata a bomba contro l’ingiustizia” è una metafora sempreverde: potrebbe essere l’anonimo ragazzo di piazza Tienamen che fermò i carri armati, o la giovane Neda uccisa dalla milizia iraniana, o Anna Politkovskaja, la giornalista freddata in Russia per le sue scottanti inchieste. Guccini ha attraversato la cultura italiana del novecento, ne è stato parte integrante pur standone ai margini, l’ha influenzata senza darlo a vedere, ha scritto versi che ha messo in musica, ma che starebbero in piedi anche da soli. Molti cantautori storcono il muso a sentir parlare di poesia, le canzoni sono canzoni e basta, ma quando le parole senza il loro suono hanno lo stesso un significato, allora è lecito parlare di poesia, e di arte. Ed è la resistenza alle ingiurie del tempo quella che autorizza a definire “d’arte” un’opera.

 

Le canzoni di Guccini, da “Dio è morto” a “Il vecchio e il bambino”, da “Piccola città” a “Canzone per un’amica”, stanno lì a sfidare il tempo come le facce dell’Isola di Pasqua.. E’ arte povera, forse, quella del cantastorie, del menestrello che riesce ad interpretare il sentimento popolare, che canta con e per il popolo, che dalle strade e dalle cantine passa ai palasport ed agli stadi, semplicemente perché la sua, di arte, è diventata riproducibile all’infinito, e l’ uditorio possibile si è esteso oltre i confini della sua casa.

 

Da quarant’anni Guccini interpreta e canta la resistenza sociale d’Italia, mette in versi parole semplici ma di facile presa e ripetibilità. E’ stato il guru della generazione dei “capelloni”, dei metalmeccanici, dei disoccupati, di tutti coloro che sono comunque e sempre “contro”, ma anche di molti di quelli che, giovani ieri, attempati oggi, sono perfettamente integrati nella società “capitalista”, con tanto di suv e villa a mare. In fondo, pur essendo politicamente schierato, Guccini è stato, ed è ancora, un cantastorie trasversale, proprio per la universalità del suo messaggio: “Al caldo del sole, al mare scendeva la bambina portoghese/non c’eran parole, rumori soltanto come voci sospese/ il mare soltanto, e il suo primo bikini amaranto/ le cose più belle, e la gioia del caldo alla pelle” (“Canzone della bambina portoghese”).