Un'adolescenza ai piedi della fabbrica

Intervista a Silvia Avallone, finalista al Premio Strega con il romanzo 'Acciaio' edito da Rizzoli

 

di Raffaella Miliacca


Anna e Francesca, amiche inseparabili, 14 anni cresciuti insieme tre le case popolari, vista spiaggia, costruite per gli operai dell’acciaieria, a Piombino. La loro adolescenza si consuma tra la sabbia, l’acciaio e il cemento. Due ragazzine che sbocciano ed esibiscono quei loro corpi in fermento. Giocano, scherzano, sognano, insieme: Anna, di andarsene, studiare e fare un mestiere importante; Francesca, di stare sempre con la sua amica. La loro età è una sfida, la loro amicizia l’unica ricchezza tra le miserie e il degrado di via Stalingrado. Quando arriva l’amore, le trova impreparate, tanto da incrinare il loro rapporto e separare le loro strade.

Anna e Francesca non sono, però, le uniche protagoniste di “Acciaio” (ed.Rizzoli), romanzo d’esordio di Silvia Avallone, finalista al Premio Strega. Altrettanto importante è lo scenario in cui si muovono, agiscono: una realtà proletaria -termine desueto e che oggi ci piace sostituire con precariato, marginalità- dove il lavoro in fabbrica ti dà la possibilità di vivere, ma non lascia spazio ai sogni e alle speranze, soprattutto a quelle dei più giovani. Lo sballo, la macchina nuova, le serate nei locali, come le uniche occasioni di fuga. E l’isola d’Elba, visibile, di fronte a Piombino, eppure così lontana, meta di turisti, e orizzonte irraggiungibile per molti.

“Acciaio” è un libro di sentimenti, di passioni, ma è anche il racconto di una realtà dura, difficile, in certi momenti quasi una cronaca. Come è nata questa esigenza narrativa?
Oltre a voler raccontare la storia di Anna e Francesca, di due adolescenti e delle loro famiglie, dice Silvia Avallone, ci tenevo a ricostruire un mondo che è quello di tutte le periferie italiane che si sviluppano intorno a una fabbrica, un mondo del lavoro che pare dimenticato, che pare non esista più, invece esiste eccome.

L’immagine di Piombino che dal romanzo viene fuori ha sollevato qualche polemica. Quanto c’è in quella Piombino di finzione narrativa e quanto è il modello di una realtà che ha appunto voluto rappresentare?
Anzitutto, “Acciaio” non è un romanzo su Piombino, né un’inchiesta sulla città. Infatti, via Stalingrado, che si potrebbe definire un quartiere “metafora”, non esiste a Piombino bensì in tutta Italia. In secondo luogo, è chiaro che il sistema romanzo, della fiction, parte dalla realtà, però si assume la responsabilità di raccontare delle storie che non sono coincidenti con la realtà. Un romanzo non può fare pubblicità a un luogo, dare una definizione di un luogo. In questo senso, mi pare che il risentimento di alcuni cittadini di Piombino sia poco giustificato. Poi, dato che sono molto affezionata a quella città e ho ancora dei legami importanti, c’è da dire che molta parte della cittadinanza ha capito trattarsi di un romanzo, anzi, magari è stata anche l’occasione per interrogarsi su se stessa. La scelta è caduta su Piombino, non solo perché conosco bene questo promontorio, ma perché c’è la Lucchini e di fronte c’è l’isola d’Elba e quindi c’è una contraddizione oggettiva.

Visto che è una situazione che conosce bene, quanto c’è di vissuto nel libro?
Di autobiografico nulla. Ma ho conosciuto bene molti operai, non solo della Lucchini di Piombino, ma anche di altre fabbriche del Nord, perché io sono di Biella. Ho voluto raccontare la storia di questi miei coetanei, molti ragazzi che faticano in queste fabbriche, senza che nessuno parli di loro, perché si parla ancora dei loro padri, dell’epopea operaia. Ecco, raccontare questo, le loro esigenze, i loro sogni, per me è stata anche una sfida.

Anche se i sogni, nel romanzo, sembrano difficilmente realizzabili.
Io racconto della mia generazione. Sia per chi ha la terza media ed entra subito nel mondo del lavoro, sia per chi ha una laurea, l’orizzonte delle possibilità concrete di lavorare, costruirsi una famiglia, sono molto poche. Noi sentiamo molto questa stagnazione. Detto questo, nelle mie intenzioni non è un romanzo fosco, nichilista o pessimista. Racconta un “grado zero” a cui siamo tornati.

Nel libro la scrittura ha una forza visiva, quasi cinematografica. In un’occasione, lei ha detto di pensare a un capitolo come una sequenza, un’inquadratura.
E’ vero che nello sviluppare un capitolo sono quasi sempre partita da un‘immagine, una situazione. Sicuramente, non solo io, ma tutta la mia generazione risente dell’influenza del cinema. E poi, per il ritmo narrativo della storia trovo che funzioni molto questo vedere le immagini, le persone che si muovono, anziché spiegarle.

C’è già un’altra storia nel cassetto?
Non vedo l’ora di rimettermi al lavoro. Per il momento mi è stato impossibile. Comunque, penso che la letteratura, come la vita, abbia i suoi tempi e non vadano forzati. Voglio lavorare prendendomi tutti gli anni che saranno necessari per il prossimo romanzo.