di Federica Marino
“Quando guardo un paesaggio, mi viene spontaneo chiedermi perché lì c’è quella ruga, quella collina, quella forma di montagna; quale spinta le ha fatte emergere, nel modo in cui sono emerse. Esattamente come faccio con un volto”: parola di Tullio Pericoli, a cui il museo romano dell’Ara Pacis dedica la mostra Lineamenti. Volto e paesaggio, fino al 19 settembre.
La mostra arriva un anno dopo quella esclusivamente paesaggistica di “Sedendo e mirando”, omaggio dell’artista alle sue Marche, e vi aggiunge i ritratti che costituiscono il fulcro della produzione artistica di Pericoli a fianco della “gioiosa vacanza” di fumetto e satira.
All’Ara Pacis, cinquantatre grandi tele dipinte a olio realizzate tra il 2007 e il 2010 ritraggono luoghi e volti, creando un parallelo solo apparentemente bizzarro tra i segni lasciati dal tempo sul paesaggio e quelli tracciati sulle persone. Saviano e Beckett, terre coltivate o selvagge, le pennellate incidono la tela e la colorano facendo emergere dal fondo chiaro le forme, rigonfiamenti di terra o muscoli che invadono e riempiono lo spazio e danno profondità al soggetto raffigurato, mettendone in risalto la presenza e la storia.
Per i visi, sono rughe, sguardi e tratti scabri o morbidi, a raccontare la persona: i contorni indefiniti mostrano ma non affermano e lasciano spazio al non detto, in una sorta di sguardo laterale che lascia percepire profondità nascoste e subito sfocate quando si cerca di fermarle. Alla somiglianza, che è evocativa prima che “fotografica”, si aggiunge l’esplorazione del volto ritratto, alla ricerca di un senso nascosto in fondo alle rughe lasciate dagli anni. La difficoltà risiede nell’estrema mutevolezza del volto umano: se per segnare i paesaggi sono serviti secoli e millenni, il viso cambia nel tempo ma anche da un istante all’altro, con le emozioni e i moti dell’animo. Da qui i tanti ritratti della stessa persona: in mostra ce ne sono cinque dedicati a Beckett, nel tentativo di colmare la distanza tra il viso e la mano che lo ritrae. Il pittore cerca di riprodurre un’immagine in continua trasformazione e filtrata dal suo sguardo: l’impresa impossibile in sé diventa altro, e la tela ritrae non solo la persona, ma l’artista nella sua ricerca creativa. Se i ritratti sono “orografie dell’anima” nelle parole della curatrice Federica Pirani, i paesaggi potrebbero essere “ritratti del territorio”. La prima produzione di Pericoli impiega lo spazio come sfondo, successivamente arrivando a riprodurlo come mondo fantastico. Oggi il paesaggio è percepito nelle sue stratificazioni geografiche, storiche e culturali e riprodotto su tela nel suo essere “materia”, cosa, essenza prima ancora che luogo. I pigmenti sono quelli minerali, estratti dalla terra per raccontarla; la pennellata è grumosa e fangosa, ma se cui sono campi coltivati portano tracce scavate, come quelle dell’aratro. Anche i paesaggi prendono possesso totale della tela, e l’orizzonte spesso altissimo toglie spazio al cielo, per proporre in modo quasi verticale il terreno sottostante: nei luoghi deserti, le tracce dell’uomo si sommano a quelle lasciate dagli elementi naturali, in una visione d’insieme che supera il luogo ritratto. E’ il filosofo Remo Bodei a citare una storia taoista, in cui un esperto di cavalli mostra di non sapere distinguere uno stallone da una giumenta. Il suo maestro, messo al corrente del fatto, sorride felice: “E’ diecimila volte più bravo di me”, dice, e spiega: all’allievo interessa “il meccanismo spirituale. Per assicurarsi l’essenziale dimentica i dettagli più comuni; tutto intento alle qualità interiori, perde di vista le esteriori. Egli vede ciò che vuol vedere e non ciò che non gli interessa. Egli guarda le cose che si devono guardare e tralascia quelle che non hanno alcuna importanza”. Pericoli non vende cavalli, ma regala emozioni: essenziali, profonde, globale. E con un qualcosa in più, che si sente perché non c’è. Ma potrebbe essere lì un momento dopo, o forse c’era, un momento fa.