di Maurizio Iorio
Un nuovo album di Tom Petty, soprattutto se esce a distanza di otto anni dal precedente, è un evento basilare per quanti amano il rock a stelle e strisce. Il rocker di Gainsville, Florida, classe 1952, è stato uno dei portabandiera della lunga stagione d’oro del mainstream rock, quel filone che ha avuto (ed ha ancora) in Springsteen la sua guida artistica ed anche il suo nume tutelare.
I vari Bob Seger, John Mellencamp, Elliott Murphy, tanto per citare alcuni dei migliori, hanno avuto carriere altalenanti e fortune alterne. Tom Petty, unitamente alla sua backing band, gli Heartbreakers, fondamentali nel delineare il suo marchio di fabbrica, un suono da blue collar rock mescolato con gli stilemi del southern, è stato più costante, anche se negli ultimi anni ha marcato visita. Torna adesso, con “Mojo”, un album che si può tranquillamente definire vintage, registrato come se gli anni ’70 non appartenessero al passato. Niente orpelli, niente sovraincisioni, niente elettronica.
Quasi una session nel salotto di casa. C’è molto blues, dentro “Mojo”, ma anche un po’ di soul, qualche spruzzata di reggae, e forti rimembranze zeppeliniane ( “I should have known it”, “Good enough”). Tom Petty attinge a piene mani alle sue radici musicali, e ritorna con un album fuori dal tempo e dalle mode. Rilassato, senza fretta, con qualche episodio sottotono, ma fondamente saturo di grande musica.
Citazione obbligatoria per i suoi Hertbreakers, l’unica band in grado di competere con gli E Streeters di Springsteen. Protagonista assoluto è Mike Campbell, il chitarrista, che disegna le linee delle melodie e lascia una impronta profonda nel disco, dove si ritrovano echi degli Allman Brohers e di Santana. Se fosse stato pubblicato in vinile, “Mojo” sarebbe appartenuto di diritto al passato.