Ascanio Celestini con “La pecora nera” è il primo italiano in concorso alla 67. Mostra del Cinema di Venezia. In concorso anche “Miral” di Julian Schnabel e “Noruwei no mori (Norwegian wood)” del giapponese Tran Anh Hung. Nella sezione Giornate degli autori, “L’amore buio” di Antonio Capuano, storia di uno stupro tra adolescenti e di come questo cambia la loro vita.
LA PECORA NERA
di Ascanio Celestini, Italia 2010 (BIM)
Ascanio Celestini, Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Luisa De Santis, Nicola Rignanese, Barbara Valmorin, Luigi Fedele.
Si fa presto a dire pazzo. Il disagio ha mille sfumature, luoghi insospettabili, diverse forme. La pazzia, forse, è solo la più visibile, ma dipende dallo sguardo. “Quelli che abitano nella mia città finiscono tutti al manicomio. Qualcuno ci lavora, qualcun altro ce lo rinchiudono”. Lo dice Nicola, 35 anni passati in manicomio, che per lui è un “condominio di santi”. Nicola è nato negli anni ’60, “i favolosi anni Sessanta”. E ricorda di quando era bambino, della nonna che lo ha cresciuto che metteva le calze della farmacia solo per accompagnarlo a scuola, della maestra che diceva “che vuole, non ce la fa, non ci arriva”, di Marinella che era la bambina più bella, della madre che piano piano si spegne in manicomio, del padre e dei fratelli che lo considerano uno strano: “Lui si inventa le cose, le vede proprio”. Così decidono di lasciarlo per un periodo alle cure della suora del manicomio, giusto per un po’…tutta la vita. Nicola ha un amico che lo accompagna sempre a fare la spesa con la suora, e al supermercato lavora Marinella. Mettere tutto in ordine e fare la spesa e incontrare Marinella sono le cose che lo fanno stare bene. Ma Nicola sa che deve temere il buio, quel buio che l’elettricità che usano al manicomio aiuta a tenere lontano, perché “il buio fa paura. E si può morire di paura dedl buio”.
Celestini porta al cinema lo spettacolo che da cinque anni presenta a teatro. “Nello spettacolo teatrale – dice l’autore – è tutto nella tua testa. Insomma lo spettacolo teatrale poi te lo riporti a casa. Per il film è invece tutto diverso”. “La pecora nera”, però “non è un film sulla pazzia, ma casomai sul disagio, sulla disistima, sullo spaesamento della presenza, come diceva De Martino. Quella condizione che fa si che non sei da una parte né da un'altra”. Per questo “non è un film di denuncia della barbarie del manicomio, ma piuttosto del manicomio come istituzione al pari di altre come il carcere e la scuola, che sono cose altrettanto alienanti”. Girato nell'ex manicomio di Santa Maria della Pietà, a Roma, con la fotografia di Daniele Ciprì, il film è un viaggio tenero, fastidioso, duro nella realtà di Nicola, che allo spettatore non è dato sapere fino alla fine quanto sia vera e quanto inventata. La “lucidità” della voce narrante fuori campo stride con la bizzarria dei comportamenti e spinge a interrogarsi sul significato di pazzia e sofferenza. Un film che “non è solo da vedere, ma anche da ascoltare”, suggerisce Celestini.
MIRAL
di Julian Schnabel. Francia, India, Israele, Italia 2010 (Eagle Pictures)
Haim Abbass, Freida Pinto, Willem Dafoe, Vanessa Redgrave, Alexander Siddig, Yasmine Al Massri, Ruba Blal, Omar Metwally, Stella Schnabel.
L’errore sarebbe considerarlo un film di parte. C’è solo la “parte” della pace nelle intenzioni del regista ebreo-americano Julian Schnabel e della sua compagna arabo-israeliana Rula Jebreal, dal cui libro autobiografico “La strada dei fiori di Miral” è tratta la storia di quattro donne arabo-israeliane dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948 alla speranza degli accordi di Oslo del 1993.
Gerusalemme 1948. Hindi (Haim Abbass) trova abbandonati in strada 55 orfani. Li porta a casa, li nutre, decide di ospitarli. Nel giro di poco tempo diventano duemila e nasce l’istituto Dar Al-Tifel. Vent’anni dopo, Nadia ha un’adolescenza dura. Violentata dal patrigno fugge e trova lavoro in un locale. Arrestata per un rissa, in carcere conosce Fatima, infermiera diventata terrorista dopo aver visto gli orrori dell’occupazione israeliana. Miral ha sette anni quando il padre decide di affidarla alle cure dell’istituto di Hindi. Cresce al sicuro e quasi ignara di quello che succede fuori, ma quando Hindi, che crede nel potere della cultura e dell’istruzione per cambiare il mondo, decide di mandarla a insegnare ai bambini in un campo profughi, Miral viene travolta dalla violenza e dalla sofferenza della vita reale. Conosce e si innamora di Hani, un attivista politico, e dovrà decidere se la strada per la pace passa attraverso la lotta o sulla via segnata da mamma Hindi.
“Miral” arriva al Lido proprio mentre riprendono alla Casa Bianca le trattative tra Israele e Palestina, e contemporaneamente a un altro film sulla questione mediorientale, “Incendies” di Denis Villeneuve, nella sezione Giornate degli Autori. Schnabel (“Lo scafandro e la farfalla”, “Prima che sia notte”, “Basquiat”) ha detto che sentiva “l’urgenza di trasformare il libro di Rula in un film. Io sono ebreo, mia madre ha conosciuto la prigionia: volevo avere la prospettiva da un altro punto di vista”. Questo conflitto deve terminare, “perché quando muore un bambino, che sia da una parte o dall'altra non ha importanza: l'ingiustizia è la stessa. E poi i valori che il padre ha trasmesso a Rula, quelli di tolleranza, sono gli stessi che mi ha dato mia madre”. Le donne sono protagoniste perché “ancora oggi sono le prime vittime dei conflitti insieme ai bambini”, ha detto Jebreal, sottolineando che “è stato doloroso rievocare il passato, ma era d’obbligo per poter guarda al futuro” e che “l’educazione è il lasciapassare per la libertà”. Il film vive molto delle interpretazioni dei protagonisti, che mediano la visione e il racconto attraverso il loro sguardo. C’è qualche ingenuità, qualche dettaglio “romanzato” e anche se tocca le corde giuste è uno di quei film per i quali resta il dubbio se l’emozione dipenda dall’opera d’arte o dalla storia che racconta, vicina, reale, urgente.
NORUWEI NO MORI (NORWEGIAN WOOD)
di Tran Anh Hung, Giappone 2010 (Fortissimo Films)
Kenichi Matsuyama, Rinko Kikuchi, Kiko Mizuhara, Kengo Kora, Reika Kirishima, Eriko Hatsune, Tetsuji Tamayama.
Tratto dall’omonimo romanzo di culto di Haruki Murakami, pubblicato la prima volta in Italia nel 1993 con il titolo “Tokyo Blues”, “Norwegian Wood” è un film di quelli che Venezia ama, diretto da quel Tran Anh Hung che qui nel 1995 ha vinto il Leone d’Oro con “Cyclo”.
Siamo nella Tokyo del 1967. Watanabe e Naoko si conoscono dai tempi delle superiori e si ritrovano all’università. Entrambi intelligenti e introversi, sono attratti l’uno dall’altra, ma una tragedia li accomuna e li tiene distanti: la morte del loro migliore amico Kizuki avvenuta anni prima. Quando finalmente riescono ad avvicinarsi, in Naoko si risveglia quel ricordo e un senso di morte che la spinge a fuggire lontano. Watanabe prova un sentimento profondo e farebbe di tutto per Naoko. Ma all’improvviso nella sua vita arriva Midori, bellissima, estroversa, piena di voglia di vivere, il contrario di Naoko.
Era molto difficile portare sullo schermo un romanzo fatto quasi completamente di stati d’animo. Tran si è avvalso della collaborazione di Murakami per raccontare – questo secondo lui il senso della storia – quella malinconia struggente che ci prende quando “improvvisamente ci accorgiamo troppo tardi di non aver vissuto abbastanza, di non aver amato abbastanza, di non avere sofferto abbastanza per amore”. Il risultato è un film sull’amore, sulla morte, sul sesso, sul mal di vivere, concettuale, lento, fatto di lunghissimi primi piani, dettagli, momenti, con la musica che sottolinea più delle parole tutti gli stati d’animo, che si ripetono quasi con ossessione. Tanto che anche il sesso è freddo, scientifico, depresso. Una costruzione, però, che costringe a riflettere sull’importanza, spesso vitale, dei gesti e delle parole.