di Rodolfo Fellini
A vent’anni dalle ultime elezioni politiche, poi annullate, la giunta militare birmana si appresta oggi a legittimare il suo dominio con un voto che intende conferire una parvenza democratica al Paese.
Tutti gli analisti occidentali concordano nel definire il voto una mera operazione cosmetica: la Lega democratica, vincitrice delle elezioni del 1990, ha deciso di boicottare la consultazione dopo che il regime ha vietato la partecipazione al premio Nobel Aung San Suu Kyi, leader del partito, che ha trascorso quindici degli ultimi ventun anni in regime di privazione della libertà perché ritenuta “criminale e sovversiva”. Già nei giorni precedenti l’apertura dei seggi, i due maggiori partiti di opposizione (Partito democratico e Forza nazionale democratica) hanno denunciato frodi e intimidazioni. In particolare, si accusa l’Unione Solidarietà e Sviluppo, vicina alla giunta militare, di aver illegalmente raccolto voti in anticipo.
Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha definito le elezioni “non credibili” in virtù del divieto a partecipare imposto ai detenuti politici, e in particolare a Suu Kyi. La giunta ha annunciato che il premio Nobel sarà rilasciato a breve, forse una decina di giorni dopo le elezioni. In ogni caso, non ci saranno osservatori internazionali né alcun giornalista straniero potrà seguire le operazioni elettorali.
Per potersi candidare, ciascun politico ha dovuto sborsare 500 dollari, pari a circa sei mesi del reddito medio, mentre i partiti vicini alla giunta hanno usufruito di risorse provenienti direttamente dal governo. Non desta pertanto stupore che i due terzi dei candidati appartengano alle due formazioni riconducibili ai militari. Il regime, attraverso i mezzi di informazione, ha esortato i cittadini a recarsi alle urne, minacciando che, in caso di bassa affluenza, non avrà “altra scelta che prolungare il mandato finché non ci sarà una nuova consultazione, il che potrebbe richiedere molto tempo”. Qualunque sarà l’esito del voto, un quarto dei seggi è riservato per legge ai militari.
La Commissione elettorale ha annullato il voto in 3.400 villaggi, escludendo dal processo democratico un milione e mezzo di cittadini. A questi si aggiungono le circa 600.000 persone che hanno trovato asilo in Bangladesh e Thailandia. L’ex Birmania conta una quarantina di etnie minoritarie, che compongono circa il 40% della popolazione complessiva. Molte minoranze etniche (shan, kachin, karen, mons) hanno abbandonato negli ultimi anni la lotta armata.
In alcuni casi, la giunta ha concesso una certa autonomia ai "signori della guerra", che hanno continuato a produrre e trafficare impunemente eroina, sostanza di cui il Paese è tra i primi produttori ed esportatori mondiali. L'assimilazione di altre minoranze è avvenuta invece in modo brutale, con operazioni di pulizia etnica.
Oggi, la Costituzione stabilisce che Myanmar è un’unica Nazione, dotata di un unico esercito. Molti gruppi minoritari (in particolare i wa e i kachin) si sono però rifiutati di far confluire le loro milizie nelle Forze armate, e si stanno mobilitando per un possibile conflitto, che potrebbe scoppiare subito dopo le elezioni. Pochi giorni prima del voto, le forze di sicurezza hanno detto di aver sventato “un complotto degli insorti”, che intendevano far esplodere alcune bombe nell’aeroporto di Yangon (l’ex Rangoon) e in altri luoghi pubblici. Le condizioni per un rafforzamento del regime, anziché l’auspicato ritorno alla democrazia, sembrano insomma esserci tutte.