“Darkness scende a patti con la disperazione. E’ un disco che parla di gente che cerca di aggrapparsi alla propria dignità in mezzo ad un uragano. Ho cercato di scrivere dell’ultima possibilità che rimane loro. Darkness parla di gente che tenta di liberarsi…di gente che non è connessa ad un luogo specifico, ad uno scenario ben determinato. Non c’è più il senso del viaggio libero e senza prezzo di Born to run. In Darkness, se vuoi correre, devi pagare. Ed è meglio continuare a correre. Le mie canzoni non hanno un inizio ed una fine. Ho sempre pensato che possedessero un po’ dell’essenza del drive-in. Furore, il film (di John Ford, ndr), ha influenzato molto Darkness”.
Così, molti anni fa, Bruce Springsteen parlava del suo quarto album (Darkness On The Edge Of Town, 1978), pubblicato dopo una lunghissima gestazione e al termine di una infinita causa legale con il suo vecchio manager, Mike Appel. E che Furore fosse rimasto ben piantato nella sua testa lo testimonia The Ghost Of Tom Joad, l’album del 1995 direttamente ispirato al libro The grapes of wrath (“Furore”) di John Steinbeck, la Bibbia del sogno americano infranto.
The promise, che è una sorta di opera omnia su Darkness e i suoi dintorni, non è semplicemente una nostalgica operazione di marketing, o una nuova tacca da incidere sulla corteccia della carriera springsteeniana. E’ invece un ritorno alle origini, uno sguardo all’indietro per comprendere meglio il senso del presente, la rilettura senile di una rabbiosa opera giovanile.
Il Boss, a sessantuno anni, è ancora l’ultimo eroe romantico di una generazione di perdenti. Con la differenza che alla sua, di generazione, si sono aggiunte quelle successive, nessuna delle quali è riuscita ad affrancarsi dalla sconfitta delle precedenti, quasi a dar ragione a chi sostiene che le colpe dei padri ricadono sui figli (Adam raised a Cain).
Generazioni di giovani che trovano ancora nei suoi versi e nelle sue parole la forza per non arrendersi (No surrender). Darkness è un disco “implacabile”, duro, che non fa sconti, che fotografa un mondo in cui, all’epoca, e a 28 anni, non si era più bamboccioni a scrocco sulle spalle dei genitori, ma uomini veri. Tanto Born to run (l’album del ’75 che consacrò Springsteen rockstar di caratura mondiale) guardava al futuro , quanto Darkness al presente. In pratica, entrambi focalizzati sullo stesso momento. Il parto del disco fu lungo, travagliato, e soprattutto posticipato nel tempo.
The promise, l’album che non vide mai la luce, avrebbe dovuto precederlo, e sarebbe stato il naturale punto di raccordo fra i due, se non fosse intervenuto un giudice. Nel frattempo, dal ’75 al ’77, Springsteen era in ipercinesi creativa, un vulcano con il tappo. Aveva scritto quasi 70 canzoni fra compiute e appena abbozzate, fra le quali le bellissima Because the night, regalata a Patti Smith, Fire, piccolo presente per Robert Gordon, The promise, per l’appunto, (“La più grande delle canzoni mai escluse da un disco”, Jon Landau) e alcune di quelle che avrebbero visto la luce in The river (Sherry Darling, Point Blank).
Dave Marsh, critico musicale americano, ed autore della prima biografia autorizzata di Springsteen, scrisse, a proposito di Darkness: “..questa è musica della sopravvivenza. Per Springsteen sopravvivere vuol dire affrontare tutto ciò che distrugge la mente e la forza fisica, significa prendere la vita per quello che è, non mollare mai”. “Sarò sulla collina con tutto quello che ho/io sarò là e pagherò il prezzo/per cercare cose che possono trovarsi soltanto/ nell’oscurità ai margini della città”, canta Springsteen nella title-track.
Il tema prevalente delle canzoni dell’album è il lavoro, e il quadro complessivo è un affresco-tributo alla working-class americana, della quale cui il Boss divenne il cantore incontrastato. Per questo, all’epoca, si disse che Darkness era deprimente. Anche la foto di copertina, con Springsteen in atteggiamento da sfigato di borgata e l’occhio da tossico, ne alimentò la convinzione. In una intervista al New Musical Express, l’autore rappresentò così i protagonisti delle sue canzoni: “I personaggi non sono ragazzi, sono più vecchi. Sei stato ferito, ma c’è ancora speranza. C’è sempre speranza. Ti gettano la terra addosso per tutta la vita, e molta gente viene seppellita così profondamente che non ne uscirà mai fuori. L’album riguarda quelle persone che non lo ammetteranno mai”.
Eppure, in Badlands, il brano di apertura, dopo aver disegnato con disilluso realismo la mediocrità umana (il povero vorrebbe essere ricco/il ricco vorrebbe essere re/ e un re non è soddisfatto fino a quando non comanda su ogni cosa”), Springsteen cerca di fare per ogni ascoltatore quello che il rock ha fatto per lui: “Per quelli che ne sono sicuri/sicuri dentro/ che non c’è peccato ad essere vivi”. Non c’è peccato ad essere vivi , e non bisogna aver paura di sognare. Parola di Boss.