30 anni fa l'assassinio di John Lennon


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Un mito non invecchia

Erano le 22.50 dell’8 dicembre del 1980 quando Mark David Chapman esplose 5 colpi di pistola contro l’ex Beatles davanti al palazzo 'Dakota' a Central Park b

di Rita Piccolini

“Ehi, mister Lennon! Sta per entrare nella storia”. Erano le 22.50 dell’8 dicembre del 1980 quando Mark David Chapman esplose 5 colpi di pistola contro l’ex Beatles davanti al palazzo “Dakota” a Central Park. Alcune ore prima lo aveva visto uscire, gli aveva stretto la mano e chiesto l’autografo con dedica su una copia del suo ultimo disco “Double fantasy”. Al suo ritorno insieme all’inseparabile Yoko Ono lo aveva colpito senza esitare. John Lennon ebbe soltanto il tempo di dire: ”Mi hanno sparato”. Alle 23.09 fu dichiarato morto al Roosvelt Hospital di New York. Aveva appena compiuto quarant’anni. Oggi ne avrebbe avuti settanta.

Sono passati trent’anni e John Lennon è entrato nella storia e ci resterà per sempre. Su questo il suo assassino ha avuto ragione. Chapman continua a marcire in carcere e tre mesi fa si è visto rifiutare per la sesta volta la libertà vigilata. L’omicida, un ex tossicodipendente, ossessionato dal personaggio del giovane Holden (quando uccise aveva con sé il libro di Salinger), si dichiarava fervente cristiano e voleva punire Lennon perché si era professato ateo e aveva detto di essere “più famoso di Gesù Cristo”. Almeno questo dichiarò al momento dell’arresto. Certo era un esaltato che prendeva tutto alla lettera e non capiva le provocazioni che avevano contributo, insieme alla sua musica innovativa, a rendere famoso l’ex Beatles. John Lennon fu trasgressivo, controcorrente, provocatorio, non c’è dubbio. Disturbò molti il suo modo di essere e persino il suo legame con Yoko Ono, vista dai più come una specie di strega, più grande di lui e certo non bellissima, che lo condizionò, lo allontanò dagli altri tre mitici componenti dei Beatles e in qualche modo lo avrebbe portato alla rovina. Ma in realtà cosa c’è di più cristiano del messaggio “Peace end Love” che aveva reso John Lennon agli occhi dei suoi fans il paladino contro le guerre (quella del Vietnam innanzi tutto) e uno dei precursori dell’antimilitarismo nel mondo della musica e della cultura contemporanee! Quel giorno di trenta anni fa morì un mito, perché John Lennon lo era già, anche prima di essere ucciso. Era già un simbolo, un’icona. Insieme ai “Fab Four” aveva accompagnato in musica le trasformazioni sociali, anche se in maniera diversa e più “pop “ rispetto a chi si alternò sul palco di Woodstock. Con la sua morte finì un’epoca.

Cominciavano gli anni 80 e l’edonismo fine a se stesso e un certo disimpegno presero il posto dei grandi ideali collettivi che avevano animato la generazione precedente e accomunato il linguaggio di milioni di giovani nel mondo, anche perché in forme e modi diversi molti di quegli ideali erano falliti. Ma il germe della contestazione e il rifiuto degli stereotipi e di tutti i luoghi comuni era ormai sbocciato e avrebbe continuato a spargere semi nel mondo della musica e non solo. Questi semi erano l’ironia, lo sberleffo verso tutto ciò che è conformismo, il senso critico, la ribellione verso tutto ciò che è imposizione e non scelta. E poi il messaggio di pace e di speranza diffuso nei suoi testi, uno per tutti “Imagine”. Chi della generazione di John Lennon non ha l’ha mai cantata? Ma anche le generazioni successive. Anche i nostri giovani la conoscono a memoria e continuano a cantarla. E’ un brano semplice, come semplici e attuali sono le sue parole e per questo indimenticabili. Sono anche il simbolo della giovinezza in assoluto, non in senso anagrafico, ma come categoria dello spirito. E’ giovane la voce di Lennon quando la intona. C’è una freschezza in quella musica, che fu anche quella dei Beatles tutti, che ci riporta agli anni dei sogni, degli ideali, anche degli errori e delle contraddizioni tipici della giovinezza, in cui tuttavia c’è sempre e comunque il desiderio di cambiare, di desiderare, di sognare.

In una recente intervista Carlo Verdone ha dichiarato: quando mi dissero che John Lennon era morto pensai che la mia giovinezza era finita. Verdone aveva allora trent’anni. Ma anche quelli più giovani di lui lo pensarono, anche se poco più che ventenni. Molti piansero. Tutto stava cambiando, anche per gli errori tragici compiuti da quella stessa generazione. “Il personale non era più politico”, soltanto terribilmente personale. Dietro la ricerca della realizzazione sociale e della ricerca del piacere c’era più solitudine e tristezza. E di John Lennon e di quello che rappresentò rimase il mito. Per questo in tanti oggi, giovani anche se con la barba imbiancata, si sorprendono ancora a canticchiare “Imagine”.

Davanti agli studios di Abbey Road di Londra c'è stato l’inevitabile pellegrinaggio di appassionati e a Liverpool, sua città natale, si sono svolte molte iniziative, tra cui una veglia al lume di candela durante la quale i presenti sono stati incoraggiati a cantare i maggiori successi dei Beatles. Oggi nel centro culturale “Bluecoat” si concluderà il “Bed in” che da ottobre attira le più disparate prestazioni. Seguendo l’esempio di Lennon e Yok Ono e della loro protesta contro la guerra in Vietnam, centinaia di persone si sono sdraiate sul grande letto installato nel Centro per dire ancora una volta “facciamo l’amore, non facciamo la guerra”.

Fino a sabato prossimo, ogni sera alle 20.30, Radio Due Rai propone un radio-documentario di Valeria D’Onofrio sulla vita e la carriera di John Lennon: il titolo è ”Free as a bird”.