di Rodolfo Fellini
Un tempo, quando ci si riferiva a sonanti - ma antidemocratiche - affermazioni elettorali, si parlava di “percentuali bulgare”; oggi, forse, sarebbe più opportuno dire “bielorusse”. Gli analisti mondiali, che alla vigilia del voto prevedevano il perdurare dello status quo, non hanno sbagliato e anche stavolta l’onnipotente Aleksander Lukashenko è stato rieletto trionfalmente alla presidenza, sfiorando l’80% dei consensi. Lo “zar bielorusso” guida il Paese con piglio autoritario fin dall’introduzione del pluralismo, nel 1994, e il dato anagrafico (è nato il 30 agosto 1954) lascia presagire un dominio ancora lungo.
Ancorché data per scontata, la rielezione di Lukashenko ha suscitato vibranti proteste a Minsk e nelle principali città del Paese. Al grido di “Abbasso Lukashenko, abbasso i gulag”, migliaia di oppositori sono scesi in piazza per denunciare brogli e diffuse irregolarità. Ma anche stavolta la polizia ha respinto l’attacco ai palazzi del potere e compiuto centinaia di arresti. Tra le persone fermate, 7 dei 9 candidati che l’opposizione ha schierato alle presidenziali di domenica. Lo scenario di questi giorni ricalca quello di 4 anni fa, con lo stesso copione e, a parte qualche eccezione, gli stessi protagonisti. Anche stavolta la comunità internazionale chiede più democrazia nella repubblica ex sovietica. Stati Uniti, Ue e altri Paesi occidentali denunciano i metodi repressivi usati dal governo. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton, auspica “la fine della repressione e l’immediato rilascio dei detenuti”, mentre l’ambasciata americana a Minsk lamenta “un eccessivo ricorso alla forza, anche nei confronti di giornalisti ed esponenti della società civile”. Da fonti giudiziarie, tuttavia, si apprende che i leader della protesta potrebbero essere incriminati per “turbativa alla quiete”, rischiando fino a 15 anni di carcere. Il telegiornale della tv pubblica ha inoltre dato conto del ritrovamento di un’auto, “appartenente all’opposizione”, carica di tritolo e pronta ad esplodere nel cuore di Minsk.
Il verdetto più atteso era quello degli osservatori dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa); anche questo è stato negativo. Nonostante “qualche miglioramento” rispetto al passato, il voto non può definirsi democratico, lo spoglio delle schede è stato “poco trasparente”: la strada verso la piena democrazia, insomma, “è ancora lunga”. L’Osce ha inoltre condannato la “mano pesante” usata dalle forze di sicurezza per reprimere “brutalmente” le proteste. Al contrario, esattamente come quattro anni fa, gli osservatori della Comunità di Stati indipendenti (ex Urss) ha prontamente conferito alle elezioni l’agognato bollino di legittimità: “La missione non ha riscontrato fatti tali da mettere in discussione la regolarità del voto”, ha detto il capo degli osservatori, Sergei Lebedev, giustificando anche l’operato della polizia durante le proteste.
Il viatico per il quarto mandato presidenziale dato da Mosca e dai suoi alleati è musica per le orecchie di Lukashenko, protagonista negli ultimi anni di momenti di alta tensione soprattutto con il capo del Cremlino, Medvedev. Russia e Bielorussia, insieme da un anno in un’unione doganale, hanno dato vita a una guerra delle tariffe, che ora sembra risolta, sulle forniture di gas e petrolio e sul passaggio del greggio russo diretto nell’Ue attraverso gli oleodotti bielorussi. Le politiche economiche, di sovietica memoria, attuate dal presidente Lukashenko non possono fare a meno degli aiuti economici e delle forniture energetiche russe. Prima del voto, l’Unione europea ha allentato le sanzioni in vigore dal 2002, nel tentativo di incoraggiare il cambiamento democratico nel Paese. Bruxelles si era già detta pronta, se le elezioni fossero davvero state libere e corrette, a farsi avanti con un primo pacchetto di aiuti, per favorire il progressivo distacco di Minsk da Mosca e cercare un avvicinamento con il Paese, per poi farlo rientrare nella sua sfera d’influenza. I 10 milioni di bielorussi confinano con Russia e Ucraina, ma anche con Polonia, Lituania e Lettonia. Appare normale dunque l’aspirazione, espressa da una parte non indifferente della popolazione, a una maggior integrazione europea ed euro-atlantica, come negli anni passati tentarono i leader della “Rivoluzione arancione”, poi fallita, in Ucraina. Dati alla mano, la storia bielorussa sembra destinata a ripetersi, e l’agognato cambiamento dovrà aspettare, per almeno altri 4 anni.