Si chiamava Giulietta, era di Pisa, avrebbe compiuto 80 anni il prossimo 24 marzo: Lietta Tornabuoni - morta a Roma per un arresto cardiaco nell'ospedale dove era stata ricoverata dopo una caduta - è per il mondo del cinema una di quelle figure che sembrano esistite da sempre e che sarà difficile non vedere, accucciata nel suo posto in prima fila, a tutte le proiezioni per la stampa dei film che verranno. Forse idealmente lei continuerà a esserci, troppa essendo la sua curiosità per il genio, l'arte, il mestiere che ha accompagnato nei lunghi anni della sua militanza come critico cinematografico del quotidiano 'La Stampa'.
Toscanaccia nel gusto della battuta ma severa prima di tutto con se stessa (retaggio della famiglia di militari in cui era cresciuta) aveva confidenza con l'arte fin da piccola, assecondando la passione del fratello Lorenzo, più giovane di tre anni, che occupa la scena del figurativismo e della pittura italiana fin dagli anni '60.
Lietta scelse invece la via della scrittura dopo il matrimonio che la portò appena diciottenne a Roma dove cominciò a scrivere, nel 1949 per "Noi Donne", il settimanale dell'Unione Donne Italiane. I successivi passaggi nelle redazioni di "Novella", "Espresso", "Europeo" forgiarono la sua passione per il giornalismo d'inchiesta e d'opinione regalandole il gusto per il lavoro ben fatto, la meticolosità dell'informazione, la sintesi fulminante del giudizio e dell'opinione. Approdò a "La Stampa" nel 1970 e nel tempio del giornalismo sabaudo è rimasta tutta la vita con una breve parentesi di tre anni al "Corriere della Sera". E' stata testimone dei fatti nazionali e internazionali più importanti degli ultimi cinquant’anni, dall'attentato terroristico alla squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco 72 fino al sequestro e omicidio di Aldo Moro, fatti che raccontava con meticolosa attenzione per i dettagli e sintesi fulminante del giudizio.
Ma sono proprio le sue recensioni cinematografiche per "La Stampa" ad averla resa popolare tra i lettori: modello di una critica militante e puntigliosa che traduceva volentieri, come un vero soldato, anche per i settimanali suggerimenti del fine settimana, amatissimi dai lettori in cerca di un buon film da vedere. Di questo autentico "servizio al lettore" si trova eco, fin dalla metà degli anni '90, nell'annuale appuntamento in libreria con i suoi volumi "Al cinema" che raccoglievano le migliori recensioni dell'anno. Lietta però scriveva volentieri anche di cronaca, di costume, di mutamenti della società, tanto è vero che il suo libro forse più bello resta "Sorelle d'Italia", mentre restano memorabili i suoi "ritratti" della grande famiglia del cinema racchiusi in volumi come "Era Cinecittà" o "Album di famiglia della tv".
Le piacevano le interviste, autentici "schizzi" da pittrice delle parole, con cui fissava idee, gesti, attitudini dei grandi incontrati nel corso della professione; ai festival, dove per anni ha fatto "coppia fissa" con Natalia Aspesi e poi con Alessandra Levantesi, non si faceva mai problemi ad alternare il mestiere del critico con quello del "cronachista", sempre capace di mettere in un articolo il sale dell'osservazione acuta e dell'intuizione su un carattere. Indimenticabile il suo sodalizio letterario con Oreste del Buono, amico e collega con cui divideva il disincanto sull'umanità e l'umanità dei sentimenti.
E' stata "in servizio" fino all'ultimo giorno: nonostante il malore che l'aveva colta a una proiezione lo scorso dicembre, i suoi articoli sono apparsi sulle pagine de "La Stampa" fino all'appassionata recensione dell'ultimo film di Clint Eastwood, "Hereafter", forse non per caso dedicato al mistero della vita oltre la morte. Occhi mobilissimi, battuta pronta, sorriso distante, Lietta Tornabuoni rimane una "gran dama" del nostro giornalismo e del cinema, pudica e appartata nel privato quanto coraggiosa e decisa nelle scelte pubbliche.