E’ ritenuta l’isola felice dell’Africa, ma gli scontri che rischiano di degenerare in guerra civile potrebbero farle perdere lo storico primato.
I numeri fotografano una Tunisia dove si vive più a lungo e si guadagna di più rispetto alla media degli altri 52 Paesi africani: un’economia diversificata e politiche sociali mirate le hanno garantito standard di vita di livello quasi europeo.
La protesta contro il carovita e la disoccupazione, scaturita dalla crisi economica che colpisce l’intero pianeta, esprime tuttavia il disorientamento di una sempre più ampia fascia della popolazione, assurgendo forse a spia dei disagi di un intero continente.
La rivolta scoppia il 17 dicembre. Mohammed, un giovane laureato ma disoccupato, costretto a sopravvivere come venditore ambulante abusivo, si dà fuoco quando la polizia gli sequestra la merce in suo possesso. Teatro dell’episodio è Sidi Bouzid, città agricola in un’area povera e depressa del Sud del Paese. I funerali del ragazzo si trasformano nella prima manifestazione dei disoccupati contro il governo, e una delle prime dimostrazioni in assoluto in cui si contesta l’establishment che da 23 anni domina incontrastato l’apparato politico, economico e sociale.
Il malcontento dei ceti più deboli della popolazione sfocia in proteste spontanee, che nel giro di pochi giorni dilagano in tutto il Paese fino a mettere in discussione il modello di stabilità incarnato dal presidente Ben Ali.
L’ondata di proteste spontanee e incontrollate prende in contropiede il governo, che accusa le forze di opposizione di fomentare i disordini per destabilizzare il Paese.
In particolare, parlando alla tv, il presidente Ben Ali denuncia "atti di terrorismo” e parla di un comploto ordito da alcuni Stati esteri, “invidiosi” dei successi economici della Tunisia.
La violenta repressione della polizia surriscalda l’atmosfera e aggiunge alle rivendicazioni dei manifestanti quella per le libertà democratiche, tenute per anni in secondo piano in nome di quel relativo benessere che oggi, complice la crisi globale, sembra venir meno.
L’Occidente segue con apprensione l’evolversi degli eventi, consapevole dei rischi che un regime autoritario comporterebbe in un’area assai sensibile che fin qui non ha mai dato pensieri. Agli inviti alla moderazione di Parigi e Londra si affianca il timore, paventato da Washington, di “un uso eccessivo della forza”.
In gioco è la credibilità di un governo cui si rinfaccia la cronica mancanza di trasparenza, corroborata da un sistema giudiziario incapace di colpire i corrotti.
Avere una buona immagine all’estero è fondamentale per un Paese che dal turismo trae il 12% del suo Pil.