di N. R.
“La situazione è certamente in evoluzione, verso il miglioramento. L’inverno, secondo quanto è successo negli anni passati, coincide con una diminuzione delle attività dell’insorgenza. I talebani non hanno capacità, fortunatamente, per rispondere alle difficoltà invernali, mentre noi siamo pronti a continuare la nostra opera sul campo, arrivando anche nei più lontani villaggi dell’Afghanistan”.
Il generale Paolo Serra guida il Comando regionale Ovest dell’Afghanistan con quartier generale ad Herat. Da lui dipendono circa1.500 militari, molti dei quali provenienti dalla Brigata Alpina Iulia. Altri 800 italiani sono invece a Kabul. Negli ultimi mesi gli attacchi contro il contingente Isaf (la missione Nato sotto egida Onu) si sono moltiplicati. “L’insorgenza ha affinato le tecniche kamikaze importandole da aree del Medioriente e in particolare dall’Iraq. Potrebbe sembrare un atto di forza ma in realtà stanno innescando un processo di rifiuto da parte della popolazione”. Il generale Serra, prova con un esempio più pratico. “Negli ultimi mesi abbiamo osservato l’atteggiamento dei capi tribali. Sono diventati sempre più critici verso questi attacchi kamikaze perché spesso nel mirino dei talebani finiscono i civili. Qualche settimana fa abbiamo scortato diversi convogli umanitari destinati ad alcuni villaggi nella zona di Herat. Erano aiuti umanitari destinati alle popolazioni. Per tre giorni di seguito i convogli sono stati oggetto di attacchi da parte dell’insorgenza. Ovviamente questo atteggiamento ha rallentato l’arrivo dei generi alimentari. Alla fine abbiamo trovato sostegno proprio dalle popolazioni alle quali questi aiuti erano destinati”.
Ma si può sperare solo nel buon senso della popolazione? “Assolutamente no. Ma le posso dire che la nostra attività è molto più visibile di quanto si possa immaginare. Siamo impegnati nella costruzione di ponti, strade, scuole. Stiamo cercando di offrire possibilità di lavoro a tantissimi giovani che attualmente sono mano d’opera per l’insorgenza. Chi lavora per i talebani, per esempio, percepisce qualcosa come 5 dollari al giorno. Per questa cifra deve uccidere, mettere bombe ai bordi delle strade, deve fare attentati. E’ la stessa cifra che prende un poliziotto che, invece, fa tutt’altro. Se a questi giovani si prospetta un futuro diverso, certamente la mano d’opera del terrore potrebbe diminuire”. Come in Iraq, anche in Afghanistan il problema delle armi resta una spina nel fianco. “Stiamo lavorando per convincere la gente a consegnarci le armi, in cambio di nulla, se non di una vita normale.
L’attività italiana non si ferma al recupero delle armi ma prosegue con l’attività di ricostruzione e aiuto alle popolazioni. “Stiamo costruendo scuole per dare la possibilità a tutti gli afghani di studiare come si fa in molte parti del mondo. Entro quest’anno le nuove scuole, ricostruite o costruite dal nulla, saranno 34. Il nostro obiettivo è arrivare ad avere 3 scuole per ogni distretto di Herat. I distretti sono 15 e quindi 45 scuole. Ma affianco alle scuole bisogna poi fornire libri, quaderni, penne. C’è poi l’aspetto sanitario. Il nostro contingente interforze (esercito, marina, aeronautica, carabinieri) è al lavoro per rimettere in piedi ambulatori distrutti negli ultimi anni dai talebani, costruire nuovi centri di accoglienza e punti di aggregazione per donne e bambini”.
Per il portavoce del contingente italiano a Herat, capitano Antonio Bernardo, quella attuale è la terza volta in Afghanistan. “Per me è un’esperienza che mi arricchisce ogni giorno. Come me tutti gli altri militari diventano consapevoli della preparazione ricevuta per poter fare questa professione e soprattutto la soddisfazione nel vedere i risultati del lavoro”.
Quale è la missione alla quale siete chiamati in Afghanistan? “Il nostro lavoro si svolge in 3 direzioni: sicurezza, ricostruzione, governabilità. Nel primo caso siamo impegnati ad addestrare polizia ed esercito afghani e a dare supporto nelle loro attività quotidiani. Abbiamo reparti della Guardia di Finanza che supportano l’addestramento della polizia di frontiera locale che tra i suoi compiti ha quello di fronteggiare traffici clandestini. Ci sono poi i nostri carabinieri che, invece, addestrano le forze di polizia locali. La fase di ricostruzione avviene essenzialmente con l’attività del Cimic (struttura militare per fronteggiare emergenze e aiuti umanitari) in collaborazione con i ministeri della Difesa e degli Esteri. Il terzo punto, la governabilità. In questo siamo impegnati nel processo di censimento della popolazione in vista delle elezioni del prossimo anno”.
Ricostruzione e sicurezza a parte, quali sono le scene che sono rimaste nel cuore? “In particolare sono legato a due scene. Due anni fa abbiamo inaugurato una scuola vicino Kabul. C’erano migliaia di afghani, ci salutavano, volevano farsi fotografare con noi, ci sentivano amici. E poi qualche giorno fa. Abbiamo organizzato a Herat un corso di giornalismo per giornalisti afghani. L’iniziativa è stata lanciata proprio dal generale Serra. Voleva creare un momento di confronto, di dialogo, di esperienze. E’ stata un’emozione unica, nella quale ho imparato tantissimo. E poi i volti dei giornalisti afghani. Avevano voglia di confrontarsi, di capire, di raccontare la loro voglia di cambiare pagina. E in Aghanistan non solo questi 40 reporter vogliono queste cose. Lo vuole la maggioranza della gente comune”.
Senza pretendere di fare previsioni in un territorio dove “si vive giorno dopo giorno”, quale potrebbero essere gli scenari futuri? “La gente sta avvertendo giorno dopo giorno la percezione di sicurezza e sviluppo economico dell’area. Questo è già un grande risultato. Esempio tangibile è che l’unità italiana che si occupa della ricostruzione della provincia di Herat ha ricevuto la cittadinanza onoraria per il lavoro svolto fino ad oggi. E questo è già un buon inizio di futuro”.
(Nelle foto, dall'alto: il generale Paolo Serra e il capitano Antonio Bernardo)