Nell’ottica di promuovere la diffusione della conoscenza di una storia per lungo tempo dimenticata, il ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, con le associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, ha promosso il seminario nazionale su “Le vicende del confine orientale e il mondo della scuola”e dato vita a un Tavolo di lavoro con le stesse associazioni, istituti di ricerca storica e docenti. Indetto anche un concorso per gli studenti dal titolo “Terre, genti, tradizione e cultura dell’Adriatico orientale nel contesto della storia italiana”. Il primo seminario si è tenuto lo scorso anno, a Roma, presso il ministero. La seconda edizione si terrà il prossimo 23 febbraio, nella stessa sede.
Maria Elena Depetroni, insegnante, è consigliere dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia con delega per la Scuola e l’Università. Partecipa al seminario e al Tavolo di coordinamento con il Miur. A lei chiediamo:
Com’è nata l’idea del seminario?
L’iniziativa è stata fortemente voluta dal ministero proprio per colmare alcune lacune evidenziatesi in questi anni, sostanzialmente dall’istituzione parlamentare del Giorno del ricordo, a partire dai libri di testo. In base a una ricerca, si è constata nella pubblicistica scolastica la carenza della trattazione dell’argomento oppure la parzialità con cui era trattato: magari viene fatto un accenno alle foibe o all’esodo, però manca quella contestualizzazione d’insieme che ora è una necessità sentita da tutti. Si è cercato di coinvolgere i migliori istituti di ricerca storica , la maggior parte dei quali sono a Trieste, ma ce ne sono di ottimi anche a Torino e sparsi un po’ sul territorio. Ma la grande novità è stata il coinvolgimento delle associazioni degli esuli. Questa parte di testimonianza non era stata negli anni molto ascoltata e così è andato purtroppo perso un patrimonio ricchissimo,,perché anagraficamente parlando molti dei superstiti non ci sono più.
Il seminario è stato un successo. La prima parte, dedicata ai docenti, è stata affidata a dei relatori. Il professor Pupo, il professor Spazzali, il professor Parlato hanno coperto tutto l’arco storico. Nel po-meriggio è stata data voce al mondo della scuola, a quelle scuole –ancora poche sul territorio nazionale- che già da un po’ affrontano la questione. Hanno portato le loro esperienze, i loro lavori.
Dall’incontro sono emerse alcune considerazioni. Prima di tutto, il fattore che contribuisce a una trattazione non capillare è una conoscenza non ampia dell’argomento da parte dei professori, per una serie di fattori. Per parecchi anni su quegli eventi c’è stato silenzio, ma anche una sorta di diffidenza, perché è una storia che può essere male interpretata, distorta, strumentalizzata. Inoltre, tanti colleghi non si sentono di dominare l’argomento quindi hanno difficoltà a trattarlo in classe.
A partire da questo, si è quindi cominciato a imbastire un lavoro in preparazione di un altro seminario che si terrà di nuovo il 23 febbraio, sempre a Roma, mirato alla formazione dei docenti, Ad avallare il nostro lavoro c’è stato il tema storico alla maturità 2010. Il ministero ha scelto proprio la questione delle foibe. Bisogna premettere che il tema storico è da sempre il lato debole degli studenti. L’anno scorso c’è stato un incremento della scelta, dallo 0,6 allo 0,8%, quindi vuol dire che l’argomento ha suscitato interesse. D’altra parte lo stesso dato, lo 0,8%, significa che c’è ancora molto da fare.
Alla luce dalla sua esperienza, quindi, ritiene che tra gli studenti la percezione degli eventi di quegli anni sia mutata, c’è più interesse?
Il “Giorno del ricordo” ha dato senz’altro a quei fatti più visibilità. L’anno scorso è stato fatto un sondaggio da cui è emerso che mentre la parola “esodo” per gli studenti è poco conosciuta, sul temine “foibe” ormai c’è una certa sicurezza. Solo cinque anni fa non era sicuramente così.
Parlando della mia esperienza come docente, ho visto che nei ragazzi l’interesse aumenta quando vengono messi nella condizione di lavorare come protagonisti consapevoli. Nel caso della mia scuola, a Bergamo, sono andati a intervistare le persone che hanno vissuto l’esodo, a vedere dove sono state accolte nel 1947, a sentire come hanno ricominciato, hanno ricostruito una nuova vita. E’ stata una bella esperienza per i ragazzi. Associa alla macrostoria, la storia delle persone, del loro vissuto, del loro territorio.
La risposta è stata uguale su tutto il territorio?
Da triestina trapiantata a Bergamo, posso dire che forse la zona dove questo argomento trova più difficoltà ad essere affrontato in maniera serena e pacata è proprio la zona di Trieste. Perché lì la ferita è rimasta a lungo aperta, fintanto che non è stato firmato il Trattato di Osimo, nel 1975. Fino ad allora c’era in tanti esuli la speranza di poter tornare nelle proprie case, almeno nella cosiddetta zona B, la parte di territorio limitrofa a Trieste. Paradossalmente, la zona di Trieste è quella più difficile. In futuro, io spero di realizzare il sogno di fare il seminario nazionale non a Roma, ma a Trieste, proprio come luogo emblematico di questa storia. Ci tengo a dire che tutti i risultati di questo lavoro annuale sono stati pubblicati dal ministero nei Quaderni degli Annali della pubblica istruzione. Il volume sarà diffuso in maniera capillare in tutte le scuole e, soprattutto, nel Giorno del ricordo verrà distribuito nelle due Camere e al Quirinale. Vogliamo così far vedere che è un inizio e anche un insegnamento, perché nel Tavolo di lavoro che si è aperto l’anno scorso, nonostante tutte le diversità e le divergenze che ci sono, c’è stata molta collaborazione nell’intento di lasciare una traccia alle nuove generazioni.
Un aspetto di cui lei si è occupata in particolare è quello del ruolo delle donne. Qual è stato?
Senza nulla togliere ai mariti e ai padri che hanno perso la vita sul fronte o in maniera drammatica, il peso dell’esodo è gravato all’80% sulle donne. Sono dovute scappare in fretta e furia con i figli, portando via quello che potevano, spesso niente. Soprattutto a loro è toccato ricominciare, a volte passando da una vita agiata a dover fare quello che potevano. Molte di loro si sono messe a servizio di altre famiglie, con grandissima dignità, continuando a essere madri, mogli, in molti casi vedove.
Quelle forse più colpite sono state le ragazze, nella fascia di età tra i 14-16 anni. Le bambine, probabilmente, non se ne saranno neanche accorte, le madri hanno dovuto rimboccarsi le maniche. Invece, queste giovani che avevano magari la speranza di studiare, in un momento che era anche di grande miseria, hanno visto spezzarsi i loro sogni. (R. M.)