di Maurizio Righetti
"C'è un unico caso che ti fa dire che la certezza della pena esiste: quando diagnosticano la malattia di Alzheimer ad un tuo parente o una persona che dovrai assistere". Lo affermò qualche tempo fa, durante una giornata di studio, il presidente dell'Ordine dei Medici di Roma. Fotografava una drammatica realtà. Forte della sua esperienza di medico di base e di rappresentante di una categoria che, pure, è a contatto con situazioni pesanti (molto) della più varia natura.
In realtà, per quello che chiamano caregiver (colui chi si prende cura di un paziente) non c'è situazione sanitaria peggiore. A chi ha un cancro puoi chiedere di guardarti un bambino o di fare la spesa e, grazie al cielo, spesso dalla malattia si guarisce; da chi sta su una sedia a rotelle puoi avere attenzione, assistenza nel gestire le telefonate, consigli pratici magari sull'uso del computer, partecipazione per quanto gli permetta il suo stato; chi ha patologie che richiedono interventi anche pluriquotidiani ti lascia comunque spazi per respirare. Ma chi ha l'Alzheimer non solo non ti può aiutare in nulla, piuttosto deve essere tenuto costantemente sotto controllo: perché è capace di ingurgitare medicine o liquidi di ogni genere e magari buttarli nell'acqua della pasta o dove altro capita, usare asciugamani come fossero carta igienica, afferrare coltelli o altri oggetti pericolosi e farne un uso inadeguato, manovrare impropriamente con prese elettriche, mettere costantemente a rischio la sopravvivenza sua e degli altri. Poi non ricorda nulla, ripete sempre le stesse cose, urla spesso, ha talora manifestazioni violente, chiede di mangiare anche se ha finito un minuto prima, ti dice che non ti occupi di lui anche se, invece, stai facendo proprio e solo quello. E via dicendo. Tutto questo - in forma progressiva - anche per 10-15 anni. Investire significa in realtà risparmiare. Anche in termini economici
In nessun campo come in questo serve l'intervento pubblico. Che non significa spendere e spandere, soprattutto se i fondi scarseggiano. Come in molti paesi hanno capito, è vero il contrario: investire correttamente, e anche in maniera consistente, ha due effetti che dovrebbero essere presi nella giusta considerazione dai politici e dagli amministratori: genera per la collettività risparmi immediati e di lungo termine, migliora la qualità della vita dei malati e di chi sta loro intorno. Per questo la Francia ha lanciato il Piano quinquennale Alzheimer, deciso dal presidente Nicolas Sarkozy, stanziando 1,6 miliardi di euro "per migliorare la qualità di vita dei malati e di chi li assiste"; la Gran Bretagna ha varato il Piano quinquennale nazionale sulle demenze, con un finanziamento straordinario di 150 mln di sterline; la Norvegia, con il Piano Demenza, potenzierà i servizi socio-sanitari, le residenze, le case di cura, i centri di ricerca. E le risorse investite sono significative pur se i bilanci non sono poi così diversi o migliori del nostro e se quelle nazioni si trovano pure esse, ovviamente, nel tourbillon della crisi finanziaria mondiale. Dal canto suo il Parlamento Europeo ha adottato una Dichiarazione Scritta con cui riconosce l'Alzheimer priorità di salute pubblica e si impegna a un piano d'azione: la stragrande maggioranza dei parlamentari italiani di tutti i gruppi l'ha firmata. Sul piano generale, la riforma sanitaria del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si muove nella stessa direzione: dare oggi assistenza diffusa significa domani non solo risparmiare sulle prestazioni sanitarie, ma anche investire sulle maggiori capacità produttive di un popolo con più salute.
I dati preoccupanti della malattia. Molto sostenuti i costi per le famiglie
In Italia si contano almeno 600.000 persone malate (oltre un milione se si considerano le altre demenze) ed ogni anno si aggiungono almeno 80.000 nuovi casi; nel mondo sono colpiti almeno 35 milioni di individui, oltre 7 milioni e mezzo in Europa; numeri destinati a raddoppiarsi nei prossimi 10-15 anni. I malati hanno problemi complessi per la cui soluzione, seppure parziale, è necessaria l'attività coordinata di specialisti medici e paramedici e operatori socio-assistenziali. Sotto il profilo sanitario, la questione fondamentale è che non si conoscono appieno le cause.La Malattia di Alzheimer è una patologia degenerativa del sistema nervoso centrale caratterizzata da un progressivo e irreversibile declino cognitivo e funzionale e da anomalie del comportamento. Le possibilità di esserne colpiti aumentano con l'età: da meno del 2% tra i 65 e i 69 anni, fino al 5% a 75-79 anni, al 20% tra 85 e 89 anni, a oltre il 30% dopo i 90 anni. Rarissimamente (un centinaio di casi al mondo) è ereditaria. Sono in corso ricerche per terapie efficaci. Da una decina d'anni sono in commercio farmaci capaci di rallentare l'evoluzione dei sintomi della malattia nelle sue varie fasi, che però non agiscono sulle cause. Il costo medio annuo di un malato è di 50 mila euro gravanti per l'85% sulle famiglie. Sul piano socio-economico, il problema è che la malattia colpisce soggetti anche in età presenile rendendoli progressivamente non autosufficienti e peggiorando così la qualità delle vite loro e dei familiari. Una accettabile soluzione, oltre alla indubbia valenza umana, permetterebbe di gestire meglio le invalidità e di limitare i costi connessi. E' necessario quindi prevenire, per quanto possibile, o contenere, il danno delle complicanze quando esse si sono già manifestate. Il che vuol dire ricerca clinica su: cause scatenanti, diagnosi precoce, terapia qualificata, riabilitazione, risanamento ambientale, informazione sanitaria.
Necessario capire che non c’è alternativa ai centri di alta specializzazione In una situazione del genere sarebbe auspicabile operare in maniera efficace e mirata, concentrare gli sforzi, realizzare centri di alta specializzazione capaci di gestire la malattia in tutte le sue fasi. Col connesso risultato di liberare le altre strutture e competenze sanitarie da questa incombenza e con una evidente razionalizzazione degli interventi. E un minore impiego complessivo di risorse finanziarie.
La regionalizzazione della sanità, propria del nostro Paese, se da un lato accresce l’efficacia delle scelte rendendole più immediate e meglio mirate sulle esigenze locali, certamente non aiuta in un settore così complesso, dove c’è poco dappertutto -rispetto a quello che servirebbe- e nel quale non vi è angolo della nazione in cui il disagio per il paziente e i caregiver non sia -purtroppo- così capillarmente diffuso. Un indirizzo nazionale sarebbe comunque indispensabile per determinare almeno una piccola svolta nell'affrontare il grave problema. Alla Camera e al Senato giacciono da anni due disegni di legge praticamente identici che prevedono, pur con un finanziamento al limite del risibile (20 milioni di euro per anno in 3 anni): riabilitazione in strutture apposite o in regime ambulatoriale fino all’assistenza domiciliare integrata; degenza in reparti specializzati e residenze sanitarie apposite; attivazione di una rete integrata di servizi socio-sanitari; programmazione degli interventi con pieno coinvolgimento di famiglie e loro associazioni; aggiornamento del personale delle strutture specializzate per garantire una migliore erogazione dei servizi. La proposta mira al “mantenimento della autosufficienza” e alla “qualità della vita" del malato e della sua famiglia. Ma, per ora, di discussione in commissione e in aula proprio non si parla. Ed è davvero una dimostrazione di insensibilità assolutamente inconcepibile. Quasi che il problema sia un'invenzione o l'interesse ad un intervento pubblico determinato da chissà quali lobby. Ma forse è proprio l'assenza di peloso coinvolgimento da parte di gruppi di pressione a far restare nel cassetto un provvedimento sacrosanto, ancorché di basso impatto dato il minimo impiego di risorse previsto dai testi finora elaborati.