Atlante delle crisi


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L'Afghanistan guarda oltre le armi

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A fine maggio, Roma ospiterà una Conferenza della società civile afgana. Sarà la prima volta che si parlerà ad alto livello del martoriato Paese asiatico senza concentrare l'attenzione sugli sviluppi militari della crisi.

L'assise romana sarà preceduta, il 30 e 31 marzo, da una pre-conferenza che vedrà confluire a Kabul le reti sociali e i rappresentanti di tutte le province.

La doppia iniziativa, finanziata dalla Cooperazione italiana, fa parte del progetto "Afgana", un network informale della società civile italiana, nato nel 2007 per formulare proposte per la pace e la giustizia.

Definire la società civile afgana può risultare arduo, in un Paese da decenni alle prese con guerre e conflitti.

"Afgana" ha perciò realizzato un'indagine a tappeto, i cui primi risultati saranno presentati all'assise di Roma. Al rapporto "La società civile afgana - Limiti e potenzialità" hanno contribuito l'Ong Intersos, l'Università degli studi di Milano e la Farnesina.

Interlocutori per la pace: moschea, shura, girga
La ricerca ha coinvolto un centinaio di soggetti in 8 delle 34 province. Una volta definita la società civile, il passo successivo sarà coinvolgerla nei processi decisionali, rafforzando la sua collaborazione con il governo.

Malgrado una situazione molto precaria, dall’inchiesta emerge una società civile afgana forte, vitale, consapevole delle sue potenzialità e dei suoi limiti e diffusa nel territorio. “La comunità internazionale – dice Giuliano Battiston, estensore del rapporto - ha lavorato quasi esclusivamente con le Ong formalmente istituite e ha usato un metodo miope”. “L’Occidente ha prediletto questa strada perché cerca la ‘good governance’ di stampo liberista, che appalta alle Ong un ruolo di assistenza sociale che potrebbe essere invece dello Stato. Le Ong diventano così fornitori di servizi”.

“C’è una combinazione tra aiuti e operazioni militari che ha determinato il disegno della mappa associativa del Paese. Lo dimostrano anche i dati geografici sugli aiuti, che ricalcano un disegno politico e spesso non si basano sulle reali esigenze”. “I donatori hanno accordato formalmente una centralità alla società civile, ma è mancato il metodo: non si può tradurre ed esportare modello europeo ovunque”, sottolinea Battiston. “Fondamentale, perché la realtà femminile possa cambiare, sarà l’opera sugli uomini e sui mullah”.

Tutti gli intervistati hanno dato molta importanza ai media. C’è stata una proliferazione di radio indipendenti, ma mancano finanziamenti e attenzione alla formazione. L’accesso a Internet resta molto parziale,poiché in molte aree non c'è l’elettricità. Le notizie sono, in sostanza, quelle che vengono date dalle radio e nelle moschee. Molte organizzazioni sono nate in Pakistan e si sono poi trasferite in Afghanistan. Verso il Pakistan c'è comunque un diffuso senso di sospetto, cui fa da contraltare una maggiore apertura, specie nel Nord, verso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale.

Nel processo di rafforzamento della democrazia, secondo il rapporto italiano di “Afgana”, occorrerà evitare con ogni mezzo di favorire la spaccatura, che già oggi appare notevole, tra aree urbane e aree rurali. Gli insorti sono visti dalle associazioni coinvolte nell’inchiesta come cittadini afgani, quindi come dei simili con cui si deve parlare: non come antagonisti militari dunque, ma come interlocutori politici a tutto tondo. Ovviamente, risultano più prudenti a tali aperture tutti coloro che hanno avuto a che fare direttamente con i talebani, e in particolare le donne.

La ricerca ha rilevato una molteplicità di associazioni culturali, che coinvolgono soprattutto i giovani nelle aree urbane. L’elemento religioso, spesso ignorato dal governo di Kabul e dai donatori, non va invece trascurato: come ancora accade con le parrocchie in numerose realtà italiane, moschee e scuole coraniche sono l’unico punto di incontro in molte realtà. Nei 40.000 villaggi rurali, i consigli (girga o shura) sono istituzioni informali, prive di un mandato esplicito, non rappresentative né democratiche, che ora cominciano però a godere di una più ampia credibilità e legittimazione rispetto alle Ong.

“Al di là di ogni giudizio, le assemblee locali hanno arginato la frammentazione sociale”, osserva Battiston. “La società civile afgana fatica a individuare obiettivi e strumenti, ma è sempre più consapevole del ruolo che svolge. Spesso mancano gli statuti, ma non la volontà di partecipare alla cosa pubblica. Anche i sindacati stentano a vedere legittimato il loro ruolo”. “E’ ora che Kabul e i donatori comincino a sostituire i progetti a breve termine con progetti a lungo termine e rinuncino al loro ruolo paternalistico, restituendo competenze agli attori locali”.

“Il governo di Kabul dovrebbe favorire il decentramento dei processi decisionali, garantire trasparenza e vedere nella società civile non un rivale ma un partner per la stabilità del Paese”. Che idea si sono fatti gli afgani della pace, qualcosa che in fondo non conoscono? “E’ una pace idealizzata, che si modella su realtà estranee come le democrazie occidentali. Gli elementi di visione etnici, sociali e linguistici sono occasione di dialogo che, assieme all’educazione e alla cultura, possono creare un terreno comune su cui costruire una pace reale e adeguata alle esigenze locali”, conclude Battiston.

(R. F.)