di Federica Marino
La storia in cifre dell’Aids in Italia è una parabola discendente che delinea un percorso non sempre lineare nella lotta alla “peste del ventesimo secolo”, come l’Aids fu chiamato nel 1982. Annunciato e riconosciuto come la nuova emergenza epidemiologica, l’Aids sbarcò in Italia e contribuì a stendere un velo cupo sull’edonismo degli anni Ottanta. Da noi, i più colpiti furono i tossicodipendenti, negli Stati Uniti, gli omosessuali. In Africa si moriva endemicamente e da tempo di Aids, ma se ne parlava meno: diverso il ceppo, Hiv-2 e non Hiv-1, diverso il terreno di coltura: la malnutrizione e le precarie condizioni igieniche .
I dati epidemiologici italiani su Aids e Hiv risalgono, nelle cifre del ministero della Salute, fino al 1982: da allora, 59.500 persone si sono ammalate di Aids e 35.300 sono morte. Dopo il picco del 1995, quando i nuovi casi furono 5.653 e si contarono 4.581 morti, oggi i malati di Aids sono oltre 23.000.
Per tutti loro resta in vita la speranza. Resta aperto il finale di partita per una società chiamata globalmente ad affrontare un problema non solo attraverso le terapie,ma soprattutto con la prevenzione. “Prevenire è meglio che curare”, diceva una delle prime e più massicce campagne anti-Aids: ma a che punto stanno le cose?
Milleduecento nuovi casi in un anno, mortalità stimata: 200.
L’epidemia sembra essere uscita dalla fase acuta per avviarsi a una cronicizzazione: lo conferma il numero relativamente costante dei nuovi casi nel 2007, sostanzialmente invariato rispetto al 2006. La mortalità è drasticamente in calo. Certamente merito delle terapie con i farmaci antiretrovirali, che negli anni sono andate perfezionandosi e si sono fatte più mirate ed efficaci, migliorando durata e qualità della vita dei malati.
Poi ci sono i sieropositivi, potenziali malati di Aids. Scavando nelle percentuali, è possibile leggere una storia dalle mille sfumature e dai molti protagonisti.
Nel 1987 le persone più colpite dall’Aids erano i tossicodipendenti: dieci anni dopo erano ancora la maggioranza, il 58,1% dei contagiati. Dopo lo scambio di sangue attraverso la siringa, tra le modalità del contagio c’erano i contatti sessuali (il 35,7%, etero e omo/bisessuali).Lo scenario è molto cambiato dal 1997 al 2007, quando la principale modalità di contagio risulta essere il rapporto sessuale non protetto (il 65,7, di cui il 43,7% eterosessuale), contro il 27,2% di contagi attraverso scambio di sangue endovenoso.Cambia e si allarga il bacino epidemiologico, spostandosi su una fascia più ampia di popolazione, e soprattutto sembra cambiare il modo in cui viene affrontato il contagio. Anche qui i numeri aiutano.
Il totale dei sieropositivi dall’inizio dell’epidemia è calcolato in Italia in 140-180mila persone: nel 2007 i sieropositivi sono 110-130mila, contando anche i casi di Aids conclamato. Stimate in 4.000 le nuove infezioni Hiv nel 2007, undici al giorno.
Nel 1996 quasi l’80% si scoprì sieropositivo sei mesi prima di ammalarsi. Oggi questa percentuale è scesa al 54,3%: oltre la metà dei sieropositivi all’Hiv, cioè, ha appreso di esserlo quando c’è stata la diagnosi di Aids conclamato. I sieropositivi del 1996 hanno avuto accesso alle terapie in anticipo rispetto all’insorgere dell’Aids; il 62,4% degli attuali malati di Aids non ha seguito terapie pre-Aids e soprattutto, se ha avuto comportamenti a rischio, ha inconsapevolmente contribuito a diffondere l’Hiv.
Eterosessuali i più presenti nella percentuale di chi non ha seguito terapie pre-Aids (4.193), seguiti da tossicodipendenti (2233) e omo/bisessuali (1877).
Dal punto di vista geografico, la regione numericamente più colpita è la Lombardia (30% dei casi), seguita da Lazio (13%) ed Emilia-Romagna (circa 10%). Per tassi di incidenza, sempre prima la Lombardia, poi la Liguria. Meno colpite, sia in termini assoluti che per tasso di incidenza, le regioni dell’Italia meridionale, invariato il rapporto tra casi Nord-Sud.