Aritmie: cure inadeguate, rischio ictus


Stampa

Circa 800 mila i pazienti con fibrillazione atriale

A Firenze il 42° congresso dell’Associazione Nazionale dei Medici Cardiologi Ospedalieri n

I farmaci per prevenire l’ictus, previsti nel trattamento dei pazienti con fibrillazione atriale (in Italia circa 800 mila persone), vengono prescritti solo a poco più della metà dei malati. Oltre 400mila individui non ricevono il trattamento più efficace. Le mancate terapie arrivano al 50 per cento tra i pazienti provenienti da reparti di medicina interna e si attestano ad oltre il 30 per cento in quelli dimessi dalle cardiologie. Le ragioni che spingono i medici a non prescrivere i farmaci anticoagulanti orali sono molteplici: difficoltà nella gestione degli attuali farmaci a disposizione, problemi organizzativi, scelte del paziente o controindicazioni al trattamento. Ma ci sono anche, e soprattutto, la paura degli effetti collaterali, le difficoltà a rispettare la regolarità delle analisi del sangue e l’età avanzata dei pazienti, che aumenta il rischio di complicazioni. Lo rivela lo studio ATA-AF (AntiThrombotic Agents Atrial Fibrillation) realizzato dall’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) e dalla Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti (FADOI). “Si tratta – spiegano i coordinatori dello studio, Giuseppe Di Pasquale dell’Anmco e Giovanni Mathieu della Fadoi – della prima fotografia della gestione della fibrillazione atriale scattata nel nostro Paese. Abbiamo coinvolto 7.148 pazienti curati in 164 centri cardiologici e 196 centri di medicina interna, registrando come venivano trattati per capire anche se esistono margini per un miglioramento terapeutico. È senza dubbio così, visto che in questa patologia le prescrizioni “inadeguate” sono molto frequenti”.

Il maggior rischio nelle aritmie è l’ictus
Il rischio maggiore connesso a questa patologia è l’ictus. Le “turbolenze del cuore” associate alla fibrillazione aumentano la probabilità di formazione di trombi a livello cardiaco che possono staccarsi e, quando accade, nel 90 per cento dei casi arrivano al cervello provocando un ictus. Il rischio aumenta del 5 per cento per ogni anno di “convivenza” con la fibrillazione atriale e si stima che un caso di ictus su quattro (addirittura uno su tre nell’anziano) dipenda in qualche modo dalla presenza dell'aritmia. Per ridurre il pericolo si possono utilizzare gli anticoagulanti orali, che mantengono il sangue fluido riducendo la probabilità di trombi. I farmaci disponibili, tra gli effetti collaterali, prevedono emorragie e richiedono perciò uno stretto monitoraggio del paziente attraverso regolari analisi del sangue. “Circa 800mila pazienti con fibrillazione atriale – spiega Di Pasquale – hanno l'indicazione al trattamento perché soffrono di malattie valvolari cardiache o presentano fattori di rischio come la pressione alta, il diabete, lo scompenso cardiaco, l'età avanzata: tutti elementi che, se associati all'aritmia, aumentano molto il pericolo di ictus. I nostri dati dimostrano che soltanto il 56% di questi pazienti con indicazione alla terapia riceve davvero i farmaci: ad altri 400 mila, invece, i farmaci non vengono prescritti. Accade soprattutto nei reparti di medicina interna, dove la percentuale delle mancate terapie arriva a oltre il 50% per cento contro il 33% delle cardiologie. La spiegazione di questa differenza è dovuta al fatto che nei reparti di medicina interna arrivano pazienti in media cinque-sei anni più anziani, spesso con più patologie associate che espongono a un elevato rischio di emorragie o con scarsa collaborazione nella gestione di terapie per deficit cognitivi”.

Anticoagulanti, il differenziale nord-sud
“È quindi frequente – aggiunge Di Pasquale – la rinuncia a prescrivere gli anticoagulanti orali per il timore degli effetti collaterali, la cui probabilità cresce all'aumentare dell'età. Ma soprattutto la difficoltà di garantire un monitoraggio assiduo ha il suo peso; non a caso si riscontra anche un preciso gradiente nord-sud, con le Regioni meridionali meno in grado di garantire esami regolari e quindi più “restie” a concedere cure che richiedono un attento controllo da parte dei medici. Così, in moltissimi casi i pazienti con fibrillazione atriale si vedono prescrivere una semplice ‘aspirinetta’, con risultati sensibilmente minori in termini di protezione dall'ictus”. Il paradosso è che il 50 per cento dei circa 100mila pazienti che non hanno un'indicazione alla terapia perché sono a basso rischio ricevono invece la cura: “Trattarli è più facile – commentano Marino Scherillo, Presidente nazionale ANMCO e Carlo Nozzoli, Presidente nazionale FADOI – perché sono mediamente più giovani e a minor rischio di emorragie. Come spesso accade, è più probabile essere aggressivi con i casi meno complessi”.

Con i nuovi medicinali diminuisce il rischio di emorragie
La fotografia della gestione della fibrillazione atriale nel nostro Paese non è entusiasmante, ma c'è motivo di sperare che presto le cose possano cambiare in meglio entro un anno dovrebbero infatti arrivare anche in Italia i nuovi anticoagulanti orali che comportano un minor rischio di emorragie, si assumono in dose fissa riducendo il pericolo di errori di somministrazione (molto frequenti nei più anziani) e hanno meno bisogno di monitoraggio stretto. Con un farmaco più maneggevole la quota di pazienti che trarrebbero giovamento dalla terapia, ma ne vengono esclusi, potrebbe finalmente scendere. In attesa di queste nuove terapie, ANMCO e FADOI si impegneranno, attraverso percorsi formativi rivolti ai propri associati, a far crescere una maggiore adesione dei medici alle Linee Guida più aggiornate e a migliorare l’assistenza a questi pazienti così numerosi e con elevato rischio di complicanze.

Con lo sport la probabilità di infarto cala del 25%
Camminare velocemente, quasi correre, per il tempo di una breve playlist musicale. Non è il programma di allenamento di uno sportivo, ma un’indicazione elaborata dai cardiologi riabilitativi per chi è stato colpito da infarto e affronti un percorso di recupero. I risultati definitivi dello studio italiano ICAROS (the Italian survey on CArdiac Rehabilitation and Secondary prevention after cardiac revascularization) condotto su oltre 1440 pazienti hanno infatti mostrato che svolgere un’attività fisica riduce del 25 per cento la probabilità di un secondo evento cardiaco.

Passo accelerato e senza limiti di età per non perdere l’appuntamento… con la salute. “Per attività fisica in fase di riabilitazione – afferma Marino Scherillo – si intende un impegno di 30 minuti per 4-5 volte alla settimana con un’intensità assimilabile a quella di chi è in ritardo per un appuntamento, un passo accelerato fino alla percezione della fatica. L'esercizio fisico migliora la capacità aerobica, ha effetti positivi sulla capacità lavorativa e riduce il rischio di nuovi infarti perché diminuisce la frequenza cardiaca aumentando allo stesso tempo la forza del cuore; inoltre, riduce i grassi nel sangue, ha effetti antipertensivi ed è un ottimo antidepressivo. Non ci sono limiti di età per cominciare a muoversi di più, basta individuare i modi e i tempi giusti per ciascun paziente e seguire qualche precauzione nei soggetti più fragili. Inoltre, durante il percorso riabilitativo si aiuta anche il paziente ad astenersi dal fumo, a seguire un'alimentazione sana e ad assumere le terapie raccomandate. E in chi si attiene a tutte le componenti della riabilitazione i benefici quadruplicano”.

Nella realtà si stenta a cambiare gli stili di vita
Purtroppo la realtà è diversa: lo dimostrano i dati conclusivi raccolti dall'ANMCO per lo studio BLITZ4, condotto in 163 centri cardiologici su 11706 pazienti con infarto, secondo cui molti pazienti migliorano un po' il loro stile di vita, ma in maniera tuttora insufficiente. Il 75 per cento dei pazienti, ad esempio, dopo un infarto smette di fumare; tuttavia appena il 35 per cento cammina per 30 minuti tre volte alla settimana. Inoltre, il 25 per cento dei pazienti neanche dopo un evento simile si convince a mangiare frutta o verdura almeno una volta al giorno, solo il 45 per cento mangia pesce due volte alla settimana e il 75 per cento non lo consuma più di una volta ogni sette giorni. Di conseguenza, a sei mesi da un infarto, appena un paziente su tre ha la pressione arteriosa e il colesterolo nella norma, solo il 45 per cento riesce a mantenere la glicemia sotto controllo.

Decisiva importanza della riabilitazione cardiovascolare
Tutto questo inevitabilmente mette a rischio i pazienti: non a caso il 70 per cento di chi ha avuto un infarto deve nuovamente essere ricoverato in ospedale entro un anno dall'evento. Molti casi potrebbero essere evitati grazie alla riabilitazione cardiovascolare: un programma seguito con scrupolo può infatti dimezzare i ricoveri per nuovi eventi cardiovascolari. Purtroppo nel nostro Paese il ricorso alla riabilitazione è tuttora insufficiente. “Secondo i dati del BLITZ 4, solo l’8% dei pazienti che dovrebbero rientrare in un percorso di riabilitazione, effettivamente vi viene indirizzato – dice Carmine Riccio, past president IACPR-GICR (Italian Association Cardiovascular Prevention and Rehabilitation – Gruppo Italiano Cardiologia Riabilitativa) -. I risultati conclusivi dello studio ICAROS, ottenuti su oltre mille pazienti di età compresa fra i 35 e i 85 anni e per la maggioranza maschi, confermano queste basse percentuali di adesione alla riabilitazione cardiologica. E questo nonostante la riabilitazione non preveda necessariamente un percorso di degenza ospedaliera, potendo essere svolta in ambito ambulatoriale o in day hospital in una delle oltre 200 strutture italiane che la offrono”. In una recente Consensus Conference gli esperti hanno ribadito e messo a fuoco i criteri cui i pazienti devono rispondere per essere avviati a una riabilitazione in degenza, stilando anche il preciso percorso che ognuno dovrebbe affrontare, da quello educativo alle terapie farmacologiche, agli esami di controllo durante il follow-up. “I pazienti che hanno bisogno di una riabilitazione con un ricovero sono quelli che hanno avuto un infarto esteso con compromissione della funzione contrattile, che hanno molteplici fattori di rischio, presentano altre malattie e, infine, per difficoltà logistiche non possono raggiungere strutture ambulatoriali per la riabilitazione – aggiunge Pierluigi Temporelli, presidente dell’ IACPR-GICR - . Pazienti ‘complicati’, che dovrebbero essere seguiti in centri di riabilitazione fino alla loro completa stabilizzazione clinica”.

Tanti i costi della mancata riabilitazione
La mancata riabilitazione ha un costo pesante in termini di vite umane, perché “se da un lato si sono fatti notevoli progressi per ridurre la mortalità da infarto in ospedale, oggi ormai scesa al 4 per cento, dopo le dimissioni la mortalità torna a salire ed è rimasta sostanzialmente invariata negli ultimi anni: il 70% delle persone con infarto ha un secondo ricovero entro un anno e nella maggior parte dei casi, la diagnosi è di recidiva ischemica”.

Infarto ko se curato in cardiologia: mortalità al 4%
Dopo un infarto non si muore (quasi) più. A patto di arrivare in un ospedale dove ci sia un'Unità Coronarica che possa contare sui farmaci antitrombotici di ultima generazione e soprattutto su una sala di emodinamica sempre aperta dove poter sottoporre il paziente a un'angioplastica per riaprire le coronarie ostruite a causa dell'infarto: stando ai dati del nuovo Registro MANTRA presentati nel corso del congresso di Firenze, la mortalità nelle UTIC di maggiore esperienza si è ulteriormente ridotta nel corso degli ultimi quattro anni, scendendo dal 5 per cento ad appena il 4 per cento dei casi. Nel Registro MANTRA sono confluiti i dati di 6394 pazienti con infarto ricoverati entro 24 ore dall'esordio dei sintomi in 52 UTIC, di cui 15 centri dotati di cardiochirurgia ed emodinamica, 19 con la sola emodinamica, 18 senza emodinamica. Tutti i centri potevano impiegare il meglio delle tecnologie attualmente disponibili. “In queste condizioni di ‘eccellenza’ il 64 per cento dei ricoverati è stato sottoposto ad angioplastica primaria, il 16 per cento a trombolisi; solo il 20 per cento, non ha ricevuto alcuna terapia specifica – racconta Giuseppe Di Pasquale, coordinatore della ricerca e Direttore della Cardiologia dell’Ospedale Maggiore di Bologna –. La mortalità in ospedale è risultata molto bassa, pari al 4.2 per cento; purtroppo la percentuale di decessi raddoppia, arrivando all'8.2 per cento, nei pazienti non trattati con angioplastica. Tutto questo significa che un paziente curato al meglio, oggi, ha un rischio molto basso di morire di infarto una volta arrivato presto in ospedale: seguendo le linee guida la mortalità si abbassa a un limite che sarà davvero difficile ridurre ulteriormente”. Bassissimo anche il numero di emorragie, l'evento avverso più temuto nei pazienti che di solito ricevono un “cocktail” di tre o quattro antitrombotici: nel campione analizzato l'incidenza è rimasta attorno all'1 per cento anche nei pazienti anziani, i più a rischio.

Non tutte le Utic hanno gli stessi standard
“C'è però un elemento critico – ammette Marino Scherillo, Presidente ANMCO - Questi risultati si riferiscono a una cinquantina di UTIC che non sono rappresentative della totalità delle 420 Unità distribuite in tutta Italia, ma che sono state scelte proprio perché rappresentano luoghi dove le linee guida vengono applicate al meglio. Altrove la situazione non è così rosea, per quanto in media la mortalità per infarto in ospedale sia comunque attorno al 8%. La sfida del futuro, quindi, è riuscire a trasportare ovunque questi eccellenti risultati, potenziando la rete dei soccorsi di emergenza: dobbiamo garantire a qualunque paziente, ovunque si trovi, di essere trasportato più velocemente possibile nel centro più adatto alle sue esigenze. Non è pensabile che tutte le UTIC si dotino di una sala di emodinamica per le angioplastiche, ma portare rapidamente i pazienti nel più vicino ospedale che la offre dovrebbe essere sempre e ovunque possibile”.

Antiaggreganti su misura: la nuova frontiera della sindrome coronarica acuta
Stesso quadro clinico ma farmaci diversi a seconda del tipo di paziente: la tendenza, trasversale alle diverse discipline scientifiche, è frutto dei nuovi strumenti a disposizione della comunità scientifica in grado oggi di poter scegliere l’opzione terapeutica in base alla risposta del paziente e, in alcuni casi, di utilizzare test clinici per sapere già in anticipo che principio attivo è più indicato tra quelli a disposizione. Inoltre, in un futuro sempre più prossimo, potrebbe rivelarsi indispensabile per medico e paziente il test genetico quale ulteriore arma utilissima per tracciare precisi identikit dei pazienti. Per la Sindrome Coronarica Acuta - che colpisce in Italia circa 135mila persone, 60mila delle quali vengono poi sottoposte a rivascolarizzazione percutanea (PCI) - rappresenta, però, ancora, un’arma a doppio taglio.

L’iniziativa della multinazionale Eli Lilly
Se ne è parlato, durante il Congresso di Firenze, in un approfondimento voluto dalla Lilly Italia (un’affiliata della multinazionale americana Eli Lilly and Company di Indianapolis, che si colloca tra le prime società farmaceutiche mondiali con un fatturato di oltre 23 mila milioni di dollari e circa 40 mila dipendenti). Da tempo la Fondazione della Lilly, anche per evitare la fuga dei cervelli, promuove da “La ricerca in Italia: un'idea per il futuro”, una borsa di studio da 360 mila euro da utilizzare in 4 anni.

Bolognese: sottogruppi per la terapia più indicata
“Per definire la terapia più appropriata per il paziente che è stato colpito da Sindrome Coronarica Acuta e sottoposto PCI, e identificare eventuali non responder alla terapia, si può ricorrere a test genetico o test piastrinico”, spiega Leonardo Bolognese, Direttore del Dipartimento Cardiovascolare dell’Ospedale San Donato di Arezzo. “I due test sono però costosi e con pochi benefici. Nel caso del test genetico inoltre il risultato è ancora poco attendibile. Ma una terapia mirata è oggi possibile anche senza ricorrere ai test: basta basarsi sui dati clinici che permettono di identificare sottogruppi di pazienti e la terapia più indicata e efficace per ogni sottogruppo”.

La grande efficacia delle nuova molecola prasugrel
Le conclusioni annunciate oggi provengono da un’analisi degli studi clinici delle terapie antiaggreganti attualmente a disposizione per i pazienti colpiti da SCA e sottoposti a PCI: clopidogrel, che ha rappresentato per diverso tempo lo standard terapeutico, e la molecola di nuova generazione prasugrel. Alcuni studi, riferiti a clopidogrel in particolare, hanno sottolineato come la risposta dei pazienti a questo farmaco non sempre sia uniforme. Nonostante, infatti, i pazienti in SCA/PCI in trattamento con clopidogrel ne abbiano indubbi benefici è ancora alto il numero di soggetti che va incontro ad ulteriori eventi cardiovascolari Questa limitazione di uso non riguarda invece prasugrel, che ha la capacità di trasformarsi ‘tutto e subito’ da ‘profarmaco’ a farmaco, ossia nel metabolita attivo che ha effetto farmacologico. Inoltre in alcune tipologie di pazienti, pazienti diabetici e pazienti STEMI (quelli con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST) la terapia con prasugrel è risultata particolarmente vantaggiosa in termini di rapporto beneficio/rischio rispetto a quella con clopidogrel.

Il paziente sempre più al centro della terapia
“Il razionale alla base di questa analisi è molto forte perché indica una strada differente da quella tradizionale per lo studio delle molecole” sostiene Leonardo Bolognese. “Mentre nei tradizionali approcci clinici ci si basa su osservazioni rispetto alla media dei pazienti, adesso si passa dalla media all’individuo. Ieri si metteva al centro la terapia, ora invece si studiano prima le caratteristiche del paziente e sulla base di queste si sceglie il trattamento migliore. Il futuro è questo e in questo senso si sta procedendo anche per la Sindrome Coronarica Acuta”.

Regola d’oro per gli utenti: chiamare sempre il 118
Resta importante, quando si parla di problemi cardiaci improvvisi, la rapidità degli interventi. Non bisogna mai perdere tempo e chiamare subito il 118. L’ambulanza attrezzata in genere permette il controllo a distanza in telemedicina in modo che all’arrivo alla struttura ospedaliera la situazione sia già conosciuta e presto stabilizzata. Ad oggi, non tutti i cittadini sono a parità di condizioni, ma si sta alacremente lavorando, sia da parte delle organizzazioni dei medici che da quella degli organi politici e amministrativi decisori per garantire un diritto alle cure quanto più omogeneo e di qualità, come ha anche ricordato Maddalena Lettino dell’Unità coronarica della Fondazione Ircss Policlinico San Matteo Pavia.

IDENTIKIT della SINDROME CORONARICA ACUTA
CHE COSA E'
Per sindrome coronarica acuta (SCA) si intende il complesso di manifestazioni imputabili generalmente alla rottura di una placca aterosclerotica a livello delle coronarie, con conseguente trombosi vascolare e riduzione del flusso sanguigno miocardico. L’entità dell’occlusione determina la gravità della manifestazione.

E’ necessario distinguere tra 3 differenti manifestazioni della SCA:
1. STEMI, infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST: si tratta dell’infarto più grave, dovuto all’occlusione completa e stabile del vaso coronarico. E’ seguito dalla caratteristica elevazione degli indici di necrosi miocardica e dalle caratteristiche alterazioni elettrocardiografiche (sopraslivellamento del tratto ST e formazione dell'onda Q)
2. NON STEMI, infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST: è l’infarto meno pericoloso, dovuto ad un’occlusione incompleta o temporanea del vaso coronarico. In questo caso il livello degli indici di necrosi miocardica è almeno il doppio della norma, ma manca il caratteristico quadro elettrocardiografico dell’infarto (sopraslivellamento del tratto ST e formazione dell'onda Q)
3. ANGINA INSTABILE, in questo quadro clinico rientrano varie tipologie di angina - a riposo, ad esordio recente e in crescendo - tutti sintomi che possono precedere l’infarto miocardico. In questa manifestazione della sindrome coronarica acuta tutti i markers biochimici,in presenza o meno di variazioni nell'elettrocardiogramma, sono o normali o lievemente al di sopra della norma.

SINTOMI
Infarto miocardico e Angina instabile si verificano improvvisamente e sono frequentemente associati a dolore toracico, spesso accompagnato da mancanza di respiro, nausea e vomito. Questi sintomi - segni ottenuti all’esame obiettivo, l’elettrocardiogramma (ECG, traccia dell’attività elettrica cardiaca) e le analisi ematochimiche - vengono utilizzati dai medici per determinare quale delle tre condizioni caratterizzanti la SCA sia in corso, al fine di Instaurare la terapia specifica. L’infarto del miocardio si presenta prima o poco dopo il ricovero ospedaliero, mentre gli eventi dell’angina instabile possono continuare per giorni o anche settimane.

FATTORI DI RISCHIO
Diverse le cause che possono comportare a tale sindrome: fumo, consumo di alcool, stile di vita sedentario, ipertensione, ipercolesterolemia, diabete, obesità, familiarità, età avanzata.

I NUMERI DELLA SINDROME CORONARICA ACUTA
-ogni 6 minuti un italiano è colpito da infarto;
-ogni anno sono colpiti da infarto oltre 100.000 italiani e il 50% ha meno di 70 anni;
-un quarto delle morti si verifica nelle prime 2 ore della malattia e quasi sempre prima del ricovero in ospedale;
-nei primi 12 mesi dopo l’infarto si ha ancora una mortalità superiore al 5% per anno; oltre il 5% dei malati ha un secondo infarto entro l’anno;
-ogni anno in Italia vengono effettuati: 130.000 interventi coronarici percutanei - 60.000 nelle sindromi coronariche acute (40.000 NON STEMI e 20.000 STEMI)