I rapporti tra Israele e la Palestina


Stampa

'Non cederanno mai'

Il soldato Shalit è vivo. A 5 anni dalla sua cattura da parte di Hamas, i negoziati restanno in stallo g

“Attenderanno anche 600 anni, ma non cederanno”, dice un collega palestinese (preferisce non essere citato) che scrive per il Jerusalem Post e che lavora sul campo ogni giorno, che conosce le zone palestinesi meglio di chiunque altro. La realtà che ci viene dipinta è impressionante. “C’è Gaza, Stato islamico guidato da Hamas appoggiato da Al Qaeda, i Fratelli islamici, Iran, Siria, Hezbollah… e poi c’è la Cisgiordania controllata dall’autorità palestinese dove c’è maggior sicurezza. Se Israele si ritirasse Hamas prenderebbe il controllo”.

Come facciamo a far andare avanti il processo di pace?
“Non possiamo. I palestinesi sono divisi in due. Un 50% è radicale e vuole 100% dei territori, non vogliono la pace con gli israeliani, vogliono uno Stato islamico e accettano una minoranza di ebrei se sono disposti a vivere sotto la guida musulmana, e non sono disposti a nessuna concessione. Poi, c’è l’ala moderata, o meglio meno radicale, quelli di Fatah. Vogliono 100% dei territori del 1967, nessun compromesso, nessun negoziato. Quindi, non si può trattare con quelli radicali e allora si tenta con quelli meno radicali. E comunque sanno che Israele non vuole e non concederà mai 100% del 1967. E dalle Nazioni Unite vogliono quello che non possono avere da Israele. Rivolgersi all’Onu non serve a nulla, perché in pratica quello che vogliono e riavere i loro territori e un pezzo di carta non avrà alcun valore. Noi condividiamo strade, acqua, elettricità”.

E va oltre, dicendo che Abu Mazen è “illegale” e che Obama dovrebbe chiedergli se ha un mandato e chi è che rappresenta. “Abu Mazen si ritirerà, non si può battere la pressione internazionale degli Usa e dell’Europa. L’obiettivo non è avere un loro Stato, ma i palestinesi vogliono punire Israele che quale membro dell’Onu occupa un altro membro e vogliono che Israele venga punito come è stato punito l’Apartheid e che venga condannato come razzista e criminale di guerra”.

Il pessimismo cresce: “Non c’è coesistenza, non c’è pace tra israeliani e palestinesi, nessuno vuole un bi-Stato. Non c’è soluzione per questo conflitto. I palestinesi non sono cattiva gente, lo è il loro governo, questo è il pericolo. Noi palestinesi siamo diversi dagli altri arabi, noi sappiamo cos’è la democrazia, l’abbiamo imparato dagli israeliani.

Cosa si sa di Gilad Shalit, il militare israeliano originario della Galilea occidentale catturato cinque anni fa da un commando palestinese a Kerem Shalom, località israeliana non lontana dal confine con Gaza e tenuto in ostaggio da Hamas?
“E’ vivo. Israele avrebbe dovuto cedere almeno alle richieste sulla liberazione dei prigionieri in cambio di Shalit, tanto i cattivi ragazzi sono cattivi ragazzi e non fa differenza se uccidono due o tre o dieci ebrei. Nel 1994 per liberare un altro soldato israeliano hanno preso d’assalto una casa in un villaggio e il comandante fu ucciso oltre a tre palestinesi compreso il soldato”.

Gerusalemme sarà la capitale di due Stati?
“Gerusalemme non può essere divisa fisicamente, è troppo tardi, ci sono 26 villaggi e quartieri nella parte est e in mezzo ci sono le zone ebraiche. Proprio come la cosiddetta linea verde che attraversa le case delle persone, gabinetti, salotti, cucine. Si dovrebbero forse abbattere le abitazioni?”

Il destino dei rifugiati?
“È una bugia dire loro che torneranno a casa. Non è vero. Tre le soluzioni:
1) Quando ci sarà uno Stato palestinese si potranno spostare lì.
2) Quelli all’estero potranno vivere in altri Paesi arabi o in Canada, Germania, dove si trovano.
3) Avere un compenso economico

Ma i palestinesi stanno aspettando di tornare a casa. E per come sono fatti sono intenzionati ad attendere tutto il tempo necessario. “Hanno atteso 60 anni, possono aspettare altri 600 anni. Il miracolo è possibile, come per l’Unione sovietica e la caduta dell’Impero Ottomano. Ci sono buone soluzioni solo se ci sono buone intenzioni. Uno scambio sarebbe l’ideale, ma l’ex premier Ehud Barak, attuale ministro della Difesa, ha offerto il 97% dei territori e hanno rifiutato. “Yasser Arafat, per esempio, non voleva compromessi. Sarebbe morto piuttosto che andare a vivere in una villa in Francia”.

L’Islam, ci dicono, è guidato dai terroristi e l’Iran è una minaccia per tutti. Apprendiamo anche che Hamas esisterebbe per colpa dei media internazionali. I finanziatori internazionali ora pretendono un resoconto dal primo ministro Salam Fayyad che è “un bravo uomo e tenta di fare cose buone”, mentre il presidente Abu Mazen non lo vorrebbe. “E non è vero che Abu Mazen vuole tornare a Gaza, è un posto orrendo, è una topaia fatta di quartieri poveri, degradati, il 90% della gente è disoccupata e vive in campi per rifugiati, c’è prostituzione, spaccio di droga, criminalità”.

Un colpo al cerchio e uno alla botte. “Lo sbaglio di Israele è quello di non sapere cosa vuole. Non è chiaro. E poi, dovrebbe evitare le punizioni collettive: non tratta gli arabo-israeliani come i suoi cittadini. Non è Apartheid, ma discriminazione”.

Più positiva la visione di un altro collega palestinese. In Cisgiordania lo scenario è cambiato dal 2007. Ora c’è “ordine, non ci sono terroristi, c’è la polizia palestinese, c’è una buona economia, ci sono anche i parchimetri a pagamenti, hanno aperto dei cinema e anche dei teatri, e uno dei manager è Mahdi Abu Ghazale, un ex ricercato terrorista”. Le condizioni sono migliorate decisamente, “ed è quasi noioso per un corrispondente di guerra”, dice Avi Issacharoff, giornalista palestinese per gli Affari arabi del giornale HaAretz, che ci rassicura su Gilad Shalit: “È vivo. Ma i palestinesi chiedono la liberazione di centinaia di prigionieri, ed è troppo pericoloso rilasciarli, pericoloso per l’intera popolazione. Tutti hanno paura che ci possa essere un’altra rivoluzione a Gaza”.

Sulla dichiarazione d’indipendenza e la risoluzione Onu di settembre, “vogliono appoggio e supporto internazionale per mettere in imbarazzo il governo israeliano”. Ma nulla cambierebbe. Vogliono essere chiamati ufficialmente palestinesi, ma “nella vita quotidiana non ci sarà nulla di nuovo, a partire dalla moneta che resterà lo Shekel. Forse i giovani scenderanno in piazza ed emuleranno la Primavera araba per chiedere che la risoluzione venga applicata e rispettata”. (McdM)