di Giovanni Casa
Nelle sale espositive di Palazzo Medici Riccardi di Firenze, fino al prossimo 1° marzo 2009, è in programma la mostra “L’amore, l’arte e la grazia – Raffaello. La Madonna del Cardellino restaurata”. È un evento importante per la storia dell’arte italiana, perché consente al pubblico di rimirare un’opera restituita alla bellezza originale, depurata da contaminazioni precedenti. Il lavoro di restauro è stato curato da un’équipe di esperti dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, guidati dal professor Marco Ciatti. Televideo lo ha intervistato.
Ci può spiegare la rilevanza dell’opera?
“La ‘Madonna del Cardellino’ viene realizzata da Raffaello nel suo soggiorno a Firenze, tra il 1504 e il 1508. È un periodo molto importante in cui, dopo la sua iniziale formazione urbinate e umbra, soprattutto vicino al Perugino e poi a Pinturicchio, viene a contatto con la grande scuola fiorentina e i geni che all’inizio del ‘500 erano presenti a Firenze, in particolare Leonardo e Michelangelo. È qui che lui si affranca dai modi un po’ statici e convenzionali del Perugino, sia pure elegantissimi, e prende quella che Vasari avrebbe chiamato la ‘maniera grande’ di comporre: in modo apparentemente facile e naturale, ma studiatissimo, esprimere grandi concetti, sentimenti. La ‘Madonna del Cardellino’, soprattutto dopo il restauro, mostra chiaramente questi contatti. Emergono la composizione scultorea piramidale del gruppo, la morbidezza tutta leonardesca che è venuta fuori nel carnato della Madonna, l’impostazione del paesaggio dove c’è un superamento dell’iniziale formazione peruginesca e il punto di partenza per le successive grandi commissioni romane”.
Quali sono stati i tempi della lavorazione?
“Il dipinto era in condizioni molto problematiche e questo ha richiesto un lungo studio. Una fase preliminare è sempre indispensabile, perché la metodologia richiede, prima di mettere mano concretamente al dipinto, di sapere molto bene tutto quello che è possibile sui materiali costruttivi che lo compongono, i loro problemi nel tempo, le alterazioni e, al tempo stesso, bisogna avere la piena consapevolezza dei significati espressivi, dei valori formali che tramite i materiali ci vengono veicolati. In questo caso, lo studio preliminare è stato molto importante, ancora più del solito, perché ci ha consentito di capire se fosse opportuno intervenire con una pulitura, cosa che all’inizio non era affatto scontata, vista la terribile vicenda storica del dipinto. Come racconta Vasari, l’opera era di proprietà della famiglia Nasi, il cui palazzo crollò nel 1547 per uno smottamento del terreno. Il quadro finì a pezzi e fu restaurato subito dopo. In questi casi, non è detto che si possa fare un intervento normale di restauro tramite una pulitura, infatti questo non garantisce dei buoni risultati, anzi rischia di mettere in evidenza più i danni che la bellezza dell’opera. La fase preliminare, durata due anni, è servita a stabilire se fosse il caso di intervenire, quali risultati potessimo avere, come mettere a punto il progetto. Per fortuna, le risposte sono state positive. Al di là delle linee di frattura, la pittura di Raffaello c’era, ancora in buone condizioni e le aggiunte, le parti rifatte interamente nel Cinquecento, potevano ancora convivere con il resto, mantenendo un equilibrio gradevole dal punto di vista estetico dell’insieme. In conclusione, due anni sono serviti per capire cosa fare, mettere a punto il progetto, e sei anni per realizzarlo, con grande cura, molta attenzione, continue fasi di controllo, realizzando un lavoro di pulitura, ad esempio, interamente al microscopio”.
Quali le tecniche impiegate?
“Prima di tutto sono importantissime le tecniche di indagine. Abbiamo applicato tutto ciò che la scienza mette a disposizione del restauro, la radiografia, vari usi della lunghezza d’onda, l’infrarosso, la riflettografia. Su quest’ultimo punto specifico, abbiamo un sistema avanzato di riflettografia digitale a scanner, ad alta definizione, con la messa a punto di un sistema applicativo innovativo della tac, perché il dipinto è troppo grande per essere analizzato con le normali macchine che sono in uso in ambito medico. L’Università di Bologna ha predisposto un macchinario che ci ha consentito di realizzare la tac anche al di fuori del normale apparecchio. Devo dire che è stata una bella conquista, perché è servita a decidere cosa fare dal punto di vista strutturale nel risanamento del supporto”.
Ci sono state delle difficoltà particolari?
“Le difficoltà sono state infinite. Ogni millimetro è stato sudato, perché prima di tutto bisognava capire quali materiali fossero di Raffaello, quali del restauro susseguente al 1547, quali dei lavori successivi. Di volta in volta, abbiamo deciso cosa tenere o no, dove pulire, fino a che punto, tenendo d’occhio sempre, da un lato, il recupero, per quanto possibile, della pittura di Raffaello, dall’altro, il mantenimento di una visione equilibrata e tecnicamente accettabile dell’insieme. La scelta teorica che abbiamo fatto è stata quella di evitare ogni presentazione di tipo frammentario del dipinto. Quindi, ogni millimetro è stato sudato, discusso, valutato, ma penso che nell’insieme possiamo essere soddisfatti del risultato”.
Quali sono le condizioni delle scuole di restauro in Italia?
“Lei tocca un punto dolente. Come sappiamo tutti, il Paese è in crisi. Nel settore dei beni culturali, che già viveva con le briciole del bilancio dello Stato, come si può immaginare facilmente, siamo al limite della sopravvivenza. In particolare, circa le scuole di restauro, in Italia ce ne sono due pubbliche, quella dell’Istituto Centrale di Roma e la nostra. Entrambe, purtroppo, sono ferme in attesa che il Ministero promulghi il regolamento conseguente alle nuove disposizioni contenute nel Codice dei Beni culturali. Come sempre, le leggi per essere attuate hanno bisogno di un regolamento. In sua assenza, non possiamo bandire un concorso per formare nuove classi di allievi. Questo ci dispiace molto, perché c’è una forte aspettativa da parte dei giovani, e tenere la scuola ferma, in attesa di questo adempimento, francamente un po’ ci amareggia”.